Corriere della Sera, 12 novembre 2022
Il crollo digitale del «genio dei Bitcoin»
I suoi genitori sono professori di legge a Stanford, lui esperto di diritto della salute mentale e lei di filosofia del diritto. Lui, Samuel Bankman-Fried, è un laureato di matematica del Massachusetts Institute of Technology e un appassionato di filantropia che dichiara di aver già donato cento milioni di dollari e pochi anni fa ha lasciato un posto in una società di trading per praticare a tempo pieno questa vocazione. È anche un finanziatore del partito democratico, è stato capace di attrarre Tony Blair e Bill Clinton alle sue conferenze alle Bahamas (per somme imprecisate) ed è rigorosamente vegano, spettinato e quasi sempre in shorts.
Pochi mesi fa, il suo patrimonio personale era stimato in 23 miliardi di dollari. Da ieri è un castello digitale di carte crollato sotto i colpi di una truffa, come accadde allo hedge fund di Bernie Madoff nel 2008 o al colosso dell’energia Enron nel 2001. Quelli furono fallimenti analogici, questo si è consumato nel Far West senza regole né sceriffi delle criptovalute. Ma questo come quelli marcano un cambio di stagione: la fine dell’età dell’innocenza per il Bitcoin e le sue centinaia di sorelle.
Il volto incorniciato dai lunghi capelli ricci di Bankman-Fried è oggi l’emblema di tutto questo, ma non lui non è il solo colpevole di un fallimento sistemico della finanza americana e internazionale. La richiesta di protezione dai creditori di quasi tutte le società di Bankman-Fried, a partire dalla piattaforma di trading Ftx, mette a nudo la cieca superstizione irradiatasi dalle élite alle persone comuni attorno a monete virtuali e prive di un’autorità garante come Bitcoin, Ethereum o la Ftt che lo stesso Bankman-Fried aveva creato per meglio truffare i suoi clienti.
Con il pedigree impeccabile e i modi da genio ribelle, il trentenne che ieri ha dichiarato il fallimento di un gruppo di recente valutato 32 miliardi aveva attratto la fiducia dell’élite americana e globale. Fra gli altri, avevano investito su di lui la leggenda del football americano Tom Brady (ex marito di Gisele Bündchen), il titano degli hedge fund Paul Tudor Jones, il fondo sovrano di Singapore Temasek, la banca del conglomerato coreano Samsung, il più grande gestore di attivi al mondo Blackrock e colossi del venture capital californiano come Sequoia. Nessuno di loro rivedrà granché del proprio denaro. Ciò che Bankman-Fried ha fatto sarebbe stato un reato nel mondo della finanza espressa in dollari o euro, ma in quello delle criptovalute è incredibilmente rimasto fuori dai radar dei regolatori.
Il giovane ha prestato dieci dei 18 miliardi di dollari depositati dal pubblico per fare trading sulla sua piattaforma proprietaria di scambio delle criptovalute – Ftx, la quarta più grande al mondo – a favore del suo personale fondo di investimento in cripto Alameda Research. In sostanza ha passato i soldi dei propri clienti a una sua società personale nel tentativo di colmare un buco, scommettendo sulla rinascita. A garanzia del prestito ha messo degli Fft, la criptovaluta che lui stesso aveva creato e oggi vale meno dei bit digitali di cui è fatta. Niente di tutto questo sarebbe stato possibile o legale fuori dal mondo delle cripto, dove solo le perdite di chi ci ha creduto ora sono misurabili in dollari veri.
Alameda non si è salvata, nel pieno di un crollo di valore delle criptovalute da oltre 2.800 e 800 miliardi di dollari nell’ultimo anno. In fondo duemila miliardi di valore espresso in bit e ora svanito è meno di quanto hanno perso i listini americani nello stesso periodo. Ma, come quello, dice che il risveglio dagli anni di party innaffiati dalla moneta facile e a costo zero della Federal Reserve non avverrà senza lancinanti mal di testa.