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 2022  novembre 11 Venerdì calendario

La mente prigioniera di Putin

Ieri regnava ideologia, oggi identità. È questo cambio di paradigma a ritmare il tempo del gran ballo in maschera che chiamiamo storia.
Privi di ideologie sufficientemente attraenti per il grosso dell’umanità, protagonisti e comparse della scena geopolitica ricorrono a narrazioni introvertite rotanti sull’identità. Miti necessari, poco importa quanto (in)fondati. Mastice immateriale di società tendenzialmente asociali. Le identità sono fatte di storie maniacalmente specifiche. Abiti su misura, indossabili solo da chi li sente propri. Distintivi.
Durante una delle interminabili sedute videotelefoniche di psicoterapia geopolitica inflitte da Macron a Putin – privilegio dei monarchi – il re della Repubblica Francese è esploso: «Tu ti racconti delle storie!». Proprio così. L’imperatore di non tutte le Russie si è cucito con l’aiuto di "storici" di servizio una camicia di Nesso intrisa d’un veleno mortale: il risentimento. Verso l’America, che non gli riconosce il meritato rango di capo della grande potenza Russia. Quanto a noi europei, deposti i gloriosi abiti identitari al guardaroba a stelle e strisce, meritiamo solo disprezzo.
Caso non dissimile da quello di Xi Jinping, impegnato a riportare la Cina ai molto presunti allori di due secoli fa, raccontandosi supremo staffettista della "dinastia rossa" che il Cielo vuole redentrice dalle umiliazioni subite per mano europea, giapponese e americana. Tutti alla ricerca dell’identità perduta. Americani compresi.
Da dove questa smania di identità? Dall’orgoglio che agita l’uomo. Il thymós degli antichi greci. Cantato da Omero – "l’ira funesta" che muove Achille alla guerra di Troia – o descritto da Platone quale passione, terza parte dell’anima, distinta dall’intelletto e dagli appetiti corporei.
Il movente primario dei conflitti di potere non è l’acquisizione di beni materiali. È lo status. Identità riconosciuta da chi riconosciamo abilitato a riconoscercela. Diamo al thymós quel che è del thymós. È la brama di riconoscimento che muove la storia. Dimostrazione a contrario: i conflitti cessano, o sono almeno sedati, quando i contendenti si ammettono reciprocamente legittimati a convivere in pace. Si ha pace quando il vincitore riconosce pari dignità allo sconfitto, purché si riconosca tale. Non si ha pace quando il perdente è umiliato. Tutta la differenza fra Vienna 1815 e Versailles 1919 – scarto di cui continuiamo a pagare il conto.
Come le guerre di religione, quelle per l’identità sono all’ultimo sangue. Non si combatte per un pezzo di terra in più o in meno ma per il diritto più sacro cui si osa aspirare: il riconoscimento altrui. Senza del quale nessuno può davvero credere di essere quel che vuole essere. I conflitti della Guerra Grande vertono in prima e ultima analisi sull’identità. La Russia invade l’Ucraina perché vuole certificato da Washington il rango di grande potenza revocatole dal Numero Uno finita la pace della guerra fredda. La Cina intende concludere entro il primo centenario della Repubblica Popolare la rincorsa al primato che si racconta perduto con le guerre dell’oppio, quasi due secoli fa. Gli Stati Uniti intendono confermarsi Numero Uno perché sentono scivolarsi di mano lo scettro che impugnano dalla fine della Seconda guerra mondiale e non sono sicuri di volerlo difendere a ogni costo. Tre potenze eccezionaliste, ciascuna a modo suo. Anche tre potenze incerte del proprio status. Soprattutto tre potenze che non si riconoscono pari dignità. Bene non negoziabile.
Infine, la competizione nel triangolo Washington-Pechino-Mosca investe il resto del pianeta. Spazio che i primattori trattano da serbatoio di risorse anche umane (mercenari) a disposizione dove confinare le ramificazioni minori dello scontro principale. E dove le guerre sono intrattabili.
Nel tempo grigio del Covid fisico e mentale e della guerra d’Ucraina è arduo serbare lo sguardo sobrio che emergenza imporrebbe. Né possiamo aspirare a una visione ecumenica, capace di considerare le partite in corso come coefficienti della medesima equazione globale - a proposito di identità. Ma se la rissa nel triangolo Usa-Cina-Russia non verrà presto sedata la frattura fra Ordolandia e Caoslandia - mondi del relativo benessere e dei conflitti diffusi - si svelerà insanabile. O peggio – per noi - la marea del caos s’alzerà fino a investire le avanguardie dell’invidiabile umanità boreale. Formidabile impatto etnico e generazionale fra continenti demograficamente opposti dunque complementari. In quanto presidio (si fa per dire) della frontiera fra i due macroinsiemi, l’Italia ne sarebbe prima vittima.