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 2022  novembre 11 Venerdì calendario

I 30 anni del ristorante “Cafe Milano” di Washington

È una tiepida serata primaverile, durante il secondo mandato di Obama, e siamo seduti ai tavoli all’aperto del Cafe Milano, nel cuore della Washington più suggestiva a Georgetown. Lungo la Prospect Street si avvicina un corteo di grandi auto, con i lampeggianti accesi tipo polizia. Il proprietario Franco Nuschese è insieme a noi, ma con garbo si allontana: «Scusate, è il vice presidente Biden che viene a cena. Mi ha appena avvertito. Devo andare ad accoglierlo». Per qualsiasi altro ristoratore al mondo, ricevere un messaggio simile potrebbe essere causa di infarto. Per Nuschese è un’abitudine. Perché il Cafe Milano è quanto meno la seconda ambasciata italiana a Washington. Da trent’anni, ossia dalla sua apertura, che verrà celebrata stasera con una festa da “who is who” americano.
«Sono nato a Minori, Costiera Amalfitana, nel 1961. Ho sempre saputo – racconta Nuschese a Repubblica – che non sarei rimasto. Volevo scoprire il mondo, fare nuove esperienze. Nel 1982 sono volato a Las Vegas e nell’83 ho ricevuto un’offerta per il Caesars Palace». Franco però voleva lavorare in proprio: «All’inizio degli anni Novanta sono arrivato a Washington. Cafe Milano ha aperto il 3 novembre 1992, giorno in cui Clinton ha vinto le presidenziali. Lui stesso – in più di un’occasione pubblica – ha ricordato la coincidenza, aggiungendo: “I politicivanno e vengono, ma tu, Franco, fortunatamente non hai scadenze di mandato”. Devo essere onesto, quello che avevo in mente era un ristorante casual per gli studenti della Georgetown University. Invece mi sbagliavo. Il locale si è riempito quasi subito di politici di entrambi i partiti. La mia visione era unire due concetti di eccellenza: cucina e moda italiane. Mi piaceva l’idea di giocare con lo stile, da qui il nome che richiama la capitale della moda».
In breve il Cafe Milano era diventato il ristorante dei Capi della Casa Bianca: «Da Clinton in poi, tutti i presidenti americani hanno cenato da noi. Eccetto Trump. Abbiamo avuto sia Bush che la moglie Laura. Clinton veniva molto spesso. Obama e la moglie sono venuti per delle ricorrenze, come il diploma di una delle figlie e il quarantanovesimo compleanno di Michelle. La visita di un presidente è ovviamente un momento eccezionale. Ci sono misure straordinarie di sicurezza, tanti agenti dei servizi segreti, spesso metal detector all’ingresso. Abbiamo avuto anche tanti Segretari di stato: Kissinger, Christopher, Albright, Powell, Rice, Hillary Clinton, Kerry, Tillerson, Pompeo, Blinken». Ma Franco è rimasto sempre legato all’Italia: «Con una punta di orgoglio, sono fiero di aver ospitato i presidenti Napolitano e Mattarella. Ma abbiamo avuto l’onore di accogliere tanti leader internazionali: Thatcher, Blair, May, Brown, Aznar. E i primi ministri israeliani Peres, Barak, Sharon, Olmert, Netanyahu. Ma anche monarchi come QueenSirikit di Thailandia, Re Hussein di Giordania con la moglie Noor e Abdullah con la moglie Rania; Re Juan Carlos e Sofia, il figlio Felipe, il principe Alberto di Monaco. Mi piace ricordare Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi, un “capo di stato” che ammiro particolarmente. Ed aggiungo un altro capo di stato speciale. Nel 2008 ho avuto l’immenso onore di ospitare nella Nunziatura di Washington il pranzo per l’81esimo compleanno di Papa Benedetto XVI. Un momento indimenticabile».
Ovviamente non poteva mancare Biden: «Veniva spesso, accompagnato dalla moglie italoamericana Jill o solo. Per un piatto di capellini al pomodoro, il suo preferito. È un vecchio legame, il nostro. Sono stato invitato più volte alla residenza ufficiale della vicepresidenza, il Naval Observatory. Quel che mi colpisce di lui è la straordinaria empatia, la capacità di stabilire un contatto autentico con l’interlocutore. È un gentiluomo». Clinton però è il campione dell’empatia: «Una volta l’hanno fermato ad un tavolo, e lui con grande pazienza ha risposto al telefono di un cliente che gli ha passato un familiare incredulo». Trump «mangiava solo nelle sueproprietà, ma Ivanka e Jared sono stati clienti regolari, con i figlioletti. Adorano la cucina italiana». Da Lebron James a Michael Jordan, anche gli sportivi sono clienti: «Una sera, nel 2018, Ivanka e Jared erano a cena, quando il ristorante è stato invaso dai Washington Capitals, la squadra di hockey che aveva appena vinto la prima Stanley Cup. Si è creato un divertente siparietto tra il capitano Alexander Ovechkin e la squadra col trofeo, ed Ivanka e Jared uniti ai festeggiamenti».
Mezza Hollywood si è seduta ai suoi tavoli: «Da Sophia Loren a Bradley Cooper, Leonardo di Caprio, passando per Angelina Jolie e Brad Pitt, quando erano insieme, Michael Douglas e Catherine Zeta Jones, Harrison Ford, Clint Eastwood, Martin Scorsese. Uno dei miei più cari amici è Quincy Jones, mi chiama “fratellino”, in italiano. Se dovessi scegliere un episodio particolare, direi la notte in cui abbiamo chiuso il ristorante per un evento privato con Stevie Wonder e Prince. I due duettarono. Un momento storico». Cafe Milano ospita ogni anno il dopocena di Alfalfa, uno dei party più esclusivi: «Pochi invitati. La lista cambia molto in base alle amministrazioni in carica. Partecipano tanti membri del Gabinetto, ma anche grandi nomi del business come Bill Gates e Jeff Bezos». Nella filosofia di Nuschese non è solo un ristorante, ma un punto d’incontro per avvicinare la gente: «Credo che la forza di Cafe Milano sia essere estremamente bipartisan. Le divergenze politiche restano fuori. Mi piace l’idea di aver creato in questi trent’anni un luogo in cui sia repubblicani sia democratici si sentono a loro agio. Mi ha fatto molto ridere una giornalista di The Hillche diceva: a Washington repubblicani e democratici litigano su tutto, tranne su Cafe Milano». E non solo i politici americani: «IlNew York Times ha riportato che nel marzo del 2018, a una cena organizzata da noi, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Yousef al-Otaiba, mio grande amico, incontrò casualmente il Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Due anni dopo quella conversazione, Israele e gli Emirati decisero di normalizzare le relazioni diplomatiche e commerciali con gli Accordi di Abramo. In qualche modo, quella sera si è scritta una pagina di storia».