la Repubblica, 11 novembre 2022
Perché in Kosovo si rischia un’altra guerra
Oltrepassato il fiume Ibar che taglia in due la città, la Repubblica del Kosovo si dissolve. Nelle strade di Mitrovica Nord non girano più le pattuglie della polizia, gli agenti serbi si sono dimessi in blocco. Chi dovrebbe garantire l’ordine e la sicurezza adesso dice «sono pronto a combattere se il premier Kurti invierà qui le forze speciali per costringerci a mettere le targhe kosovare». Il municipio è deserto, il sindaco Milan Radojevic se n’è andato. «Gli uffici non funzionano, si sono dimessi i pubblici ufficiali serbi e anche i bosgnacchi», fa un ragazzo, sbucato da un ingresso laterale con dei fogli in mano. «Sì, pure io…». La Corte di base è aperta, ma non c’è speranza di trovare udienza: i giudici rimasti, di etnia albanese, hanno interrotto i processi. La sede del Comitato d’emergenza, sorta di protezione civile, è vuota. Lo Stato, nel Kosovo del Nord, è sospeso.
Non era mai accaduto. Nemmeno durante la notte delle barricate e degli spari contro i poliziotti della scorsa estate, quando il contingente militare Kfor a guida Nato stava per intervenire con le armi. Dalla firma degli accordi di Bruxelles (2013) tra Belgrado e Pristina che ha dato il via alla progressiva integrazione delle istituzioni della minoranza serba in quelle della Repubblica del Kosovo (la cui indipendenza è riconosciuta da 98 dei 193 Paesi dell’Onu), mai si è vista una protesta così partecipata: 600 agenti sui 997 di etnia serba che fanno parte del Corpo di polizia, 300 dipendenti ministeriali, 130 magistrati, 11 doganieri dei valichi di frontiera di Bernijak e Jarinje, i dieci parlamentari della Lista Srspka, i quattro sindaci delle municipalità del nord, hanno rassegnato le dimissioni, causando un vuoto di potere che è anche vuoto di autorità. Dunque, far west per la mafia locale.
Tutto per una targa che non è solo una targa. Il sergente Zoran, cinquant’anni, poliziotto del direttorato Nord Mitrovica, si siede al tavolo del bar di piazza Milic, che prende il nome dai tre fratelli serbi morti nella guerra del 1998. È nervoso, si guarda intorno. «Non dovrei parlare parlare con un giornalista, ce l’hanno vietato». Chi? «Lasciamo stare… Ho riconsegnato distintivo, pistola e divisa perché Kurti non rispetta i patti di Bruxelles. Noi ci siamo integrati con le istituzioni kosovare, e maledico Belgrado che ci ha costretto a farlo, ma Kurti ci impedisce di creare l’Associazione dei dieci municipi amaggioranza serba, cruciale per tutelare le nostre radici culturali. Anche le targhe definiscono la nostra identità». Solo per questo, Zoran? «Faccio lo sbirro da vent’anni… è normale che a noi serbi non paghino gli straordinari e agli albanesi sì? È normale che noi ci mettano sempre a coprire turni notturni? È normale che ogni 20 minuti i superiori mi controllino per sapere dove sono?Sono pronto a difendere la miafamiglia e i miei diritti».
Il precedente storico è inquietante. Il 3 settembre 1990 tutti i kosovari albanesi si dimisero in blocco dalla Milizia Jugoslava, l’allora polizia di Belgrado. Dopo poco 100mila lavoratori albanesi vennero cacciati da ospedali, scuole, amministrazioni, servizi pubblici e furono costretti a espatriare. Fu il primo vagitodell’escalation che portò alla guerra Secondo un sondaggio dello Human Center Mitrovica, il 69 per cento dei kosovari serbi ritiene altissima la possibilità di un nuovo conflitto, il 68 per cento è pronto a resistere con atti di disobbedienza civile se gli verrà confiscata la macchina.
Su 9mila mezzi in circolazione con targa della motorizzazione serba, quasi tutti qui nella “Berlino dei Balcani”, risultano appena una ventina di cambi. Chi registra la targa del Kosovo, nonostante il provvedimento del governo di Pristina sia legittimo, vede l’auto prendere fuoco: è già successo cinque volte, e una granata è stata lanciata contro una villetta abitata da “traditori” della causa serba. «Anche per questo mi sono dimesso da ispettore del ministero dell’Ambiente», ammette Bojan, che troviamo sotto la statua del principe Lazzaro. «Ho paura che mi incendino la casa. O che mia moglie venga licenziata senza motivo».
La comunità internazionale teme la scintilla nella polveriera. Il governo italiano ha inviato 23 carabinieri, in aggiunta ai 600 impegnati nella Kfor, per proteggere il personale Eulex, la missione civile. Nella base Nato di Pristina sono arrivati soldati inglesi e statunitensi di rinforzo. «Da sabato scorso la nostra comunità è esposta a qualsiasi atto criminale», ragiona Milodrag Milicevic, direttore della ong Aktiv. «Il governo non si rende conto della gravità, non sembra interessato: negli ultimi nove mesi siamo stati testimoni della quasi completa assenza di dialogo tra le parti in Parlamento. Kurti testardamente spinge per le targhe e non accetta l’Associazione dei municipi sostenendo, a torto, che si tratti di una entità monoetnica come la bosniaca Republika Srpska».
Davanti al ponte sull’Ibar presidiato dai carabinieri passeggiano i deputati dimissionari. «Fin dove volete arrivare? C’è Mosca dietro la vostra scelta? È vero che dei russi presenti qui vi stanno guidando, come sostiene il ministro dell’Interno?». Non rispondono. Non una parola sul segreto di Pulcinella, ossia che l’ordine sia partito dal presidente della Serbia Alexandar Vucic che oggi a Parigi potrebbe vedere Kurti a margine di un incontro organizzato da Macron. Si parlerà della proposta franco-tedesca (prevede il riconoscimento dell’indipendenza, per questo già bocciata da Belgrado). E di come evitare altro spargimento di sangue in Kosovo.