la Repubblica, 11 novembre 2022
Ritratto del “lupo” Matteo Piantedosi
Il soprannome se lo scelse da solo, “il lupo”, perché «è il nostro animale totemico – spiegò – e lupi sono i calciatori del mio amato Avellino». Era solo un prefetto, lupo d’ufficio e dunque solitario, e certo non immaginava che, non appena entrato in fabula politica, il lupus Piantedosi, avellinese nato a Napoli 59 anni fa, sarebbe diventato il simbolo del “branco Meloni” e della nuova ferocia italiana. Proprio lui, che di famiglia apparterrebbe alla Democrazia cristiana più mite e, ancora adesso, nella piccolissima Cervinara, frazione di Pietrastornina, è raccontato come “il figlio di Mario”, “il preside”, reliquia di un mondo perduto, che insegnava tutto a tutti, è vero, ma con dolci consigli e dotti ammonimenti: «È l’Irpinia dove torno alle origini e torno alla bellezza» ha raccontato, una tantum, il nostro lupo, a una cronista locale.
E dunque a Cervinara, la città della castagna bionda e del castello rifugio dagli assalti dei briganti, nessuno ora capisce il «romanzo di formazione di un lupo», per quali oscure vie Matteo Piantedosi sia arrivato a caracollare impettito in testa al branco, più a destra della destra, protagonista a sorpresa di un autoritarismo bon ton, di una violenza di governo che esordì subito spavalda alla Sapienza, quasi volesse marcare il territorio con un po’ di botte agli studenti che, illiberali come sempre sono stati e sempre saranno, non volevano far parlare Daniele Capezzone.
Cortese, e liberale nei modi, Piantedosi era il buon prefetto, sposato con una signora prefetto, Paola Berardino, esperta di Integrazione, mamma e cuoca di un’ambitissima “genovese” e famosa per “o rrau”, due figlie alla Luiss, scalatore dello Stelvio, ciclista dilettante e collezionista di bici da corsa, una foto con Gimondi sulla scrivania.
Piantedosi, che è stato vice e “allievo” della più stimata dei prefetti, Annamaria Cancellieri, sempre ti lasciava intendere di avere tenuto a bada Salvini ai tempi dei porti chiusi e dei decreti sicurezza varati dal governo Conte; la vita d’ufficio parlava per lui, in giacca e cravatta anche ad agosto e qualche volta pure la pochette, un’eleganza anti Papeete e, agli atti, una dichiarazione democratica: «Sento di potere affermare che non c’è nessun collegamento automatico tra terrorismo e immigrazione». Ma fulminate è il giudizioche ne diede Mario Felicori, ex direttore della Reggia di Caserta e in passato direttore del dipartimento Economia e promozione del Comune di Bologna: «Di lui si può dire che è il classico uomo di cui vuoi parlare bene e non riesci a spiegare mai la ragione». Era, per esempio, prefetto di Bologna quando fu assassinato Marco Biagi, al quale lo Stato aveva negato la scorta perché «era un rompicoglioni» disse il ministro Scajola. Ed era prefetto di Roma quando la sede della Cgil fu assaltata dagli squadristi guidati da Fiore e Castellino che la polizia non tenne d’occhio. E fu Piantedosi che permise ai vincitori degli europei di sfilare per le vie di Roma in pieno lockdown per covid. Insomma, Piantedosi era il colpevole al quale non si poteva rimproverare nulla o, se preferite, l’innocenteal quale si poteva rimproverare tutto.
Ebbene, questo prefetto che con i giornalisti comunicava con gli emoticon e le faccine sorridenti, all’indomani della nomina a ministro degli Interni pareva Jack Nicholson che, nel film del 1994, “Wolf, la belva è fuori”, dopo essere stato morsicato da un lupo, diventa licantropo. Jack Nicholson delimita appunto il proprio territorio improvvisamente orinando sulle scarpe dell’avversario eil nostro Piantedosi, morsicato da Salvini, lo delimita manganellando gli studenti di sinistra.
Gianfranco Rotondi, che fu suo compagno di scuola («Non di classe») al “Vincenzo Coletta”, che è la Eton dell’Irpinia, il liceo, per dirne quattro, di Carlo Muscetta e Dante Trosi, di Antonio Maccanico e Nicola Mancino ha raccontato a Carmelo Caruso del Foglio che «era dotato, non aveva mai fatto politica. In questo caso la sua dote, forse già preparando il futuro, stava nel non occuparsene». E invece adesso, molto meglio di Salvini, se l’è caricata tutta sulle spalle la ferocia della nuova Italia, esibendo, mi raccontano, la voluttà del funzionario d’antan. È il modello di terrone che il vecchio Sud selezionava per Roma, del “servo sono”, servo persino del “razzismo gentile” e del “fascismo liberale” che ripudia le camicie nere, le carnevalate di Predappio e pure le salvinate di Capitan Salvini e si affida al ministro-prefetto. Come Salvini, sequestra in mare centinaia di disperati, ma è bravissimo a schivare le incriminazioni che bruciarono Salvini. Ha offerto persino la liberalità di far sbarcare malati e bambini, e mai ha esibito lo sguardo febbrile e la mimica da esagitato di Salvini che, nel luglio del 2018, voleva far sbarcare i disperati della Diciotti con le manette ai polsi.
E però il lupo tradisce nel linguaggio, in quel famoso “carico residuale”, la disumanità del funzionario cieco e sordo, del “servo sono” appunto, interiorizzato sino al fanatismo, alla famelicità esibita contro il rave come un lupo di Esopo, dosata a Catania come un lupo di Fedro, mascherata con la cuffia della nonna contro i francesi come un lupo di Perrault. E ovviamente sa, il funzionario, di alleggerire così le coscienze e le apparenze di tutto il branco, di Nordio e di Tajani, di Salvini e della Meloni: loro sono “i liberali” e lui è “il fascista” in questo pastrocchio liberal- fascista. È lui il nemico di Macron, il lupo che dichiara guerra alla Francia: «La solidarietà europea viene solo sbandierata», «l’Italia non potrà dare la propria adesione».
Eppure, l’unica esibizione che ancora viene attribuita alla famiglia Piantedosi sono le passeggiate del padre Mario con Fiorentino Sullo, “il suo migliore amico”, grande avellinese, ex ministro democristiano della Pubblica Istruzione negli anni della contestazione, quello che riformò l’esame di maturità di Giovanni Gentile e aveva pure magnificamente riformato l’edilizia pubblica, ma i fascisti del Borghese riuscirono a fermarlo. La loro efficace, orribile campagna stampa da macchina del fango, che arrivò a dargli dell’omosessuale perché non era sposato, fu diciamo così “stimolata” dai proprietari dei suoli che odiavano le regole edilizie proprio come oggi la Meloni odia le regole europee. Allora, era il 1967, la Dc sostituì ai Lavori pubblici Sullo con Ciriaco De Mita, un altro irpino, che è un derivato di “hirpus” che vuole dire “lupo”. E ovviamente De Mita, che era dei “lupi raptores”, quelli che Virgilio nel secondo canto dell’Eneide dice «che ciechi spinge una fame furiosa», si sbranò Sullo: homo homini lupus. E andrebbe detto a Piantedosi che in quel Borghese, che ora sta nel Pantheon di Fratelli d’Italia, c’era il codice, sanguigno e appassionato, dell’estrema destra di sempre, con tutte le parole che oggi sono di nuovo spiritualizzate dalla lettera maiuscola: Italianità, Patria, Famiglia, Nazione, Sacrificio, Martiri.
Piantedosi probabilmente neppure ci crede, ma è il loro lupo, e il lupo non è solo il simbolo dell’estrema destra che Traini aveva tatuato sulla testa. Il lupo è Piantedosi che insegna a Salvini a fare il Salvini perché, come scrisse Konrad Lorenz «sempre negli occhi del lupo brilla l’innocenza».