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 2022  novembre 11 Venerdì calendario

Le battute a prova di scemo di Checco Zalone

E se Luca Medici avesse rieducato gli italiani? Se Checco Zalone avesse fatto quel che non era riuscito al Fantozzi di Villaggio o al Lorenzo di Guzzanti: farli guardare allo specchio e, invece di dire «non mi somiglia per niente», pensare «ma forse posso provare a fare un po’ meno schifo»?
Ci penso quando, a Firenze, “Amore+Iva” viene preceduto da una gentile signorina che dagli altoparlanti dice che è vietato filmare e fotografare. Penso: figurati, senza il servizio di sequestro dei cellulari di cui si servono Chris Rock o Dave Chappelle. Penso: figurati, con la disciplina degli italiani.
Poi lo spettacolo comincia, con un filmato di Zalone truccato da Putin, che dice che se qualcuno fa foto sgancerà l’atomica sull’Italia, e va avanti per due ore di personaggi e canzoni e piccoli capolavori e lungaggini e pubblico che non sa le parole di “Poco Ricco” (voi Ragady non ve lo meritate), e nessuno mai fa una foto col telefono. Se leggete quest’articolo dal futuro – un futuro in cui l’umanità si sia redenta – sappiate che, nel 2022, dire che eravamo stati due ore senza fare foto è come dire che eravamo stati due ore senza respirare.
Tutta la platea ubbidisce a un precetto senza bisogno di costrizioni o minacce (a meno che non abbiano creduto a quella dell’atomica), e io penso che forse volevamo quello: una disciplina che ci facesse ridere. O forse il vero miracolo italiano è un tizio della remota provincia pugliese che, invece di andare dai suoi difettosi connazionali e dir loro ma-non-si-vergogna, ha preso delle schegge di specchio e le ha disposte in una foggia che non permettesse più loro di pensare quel che avevano pensato con Fantozzi: non parla di me, parla del mio vicino di posto.
Checco Zalone parla di te che lo guardi, e ne parla indifferentemente dicendotelo, che quello lì sei tu, o fingendo che io sia un altro. «Bisognerà spiegare questo titolo, perché spesso ci sono dentisti in sala. Allora, cos’è l’Iva, cari dentisti. Imparate questa parola: fattura». Parla di te e ogni tanto finge anche di somigliarti: «Il credito Iva: la più bella sensazione che possa capitare a un uomo di mezz’età dopo la pugnetta». Ti dice: faccio schifo come te, e tu fai schifo come me pure se tu hai i ticket restaurant e io sono un giullare multimilionario.
«Vedo facce da aliquota al 20, gente che beve prosecco, che si smezza l’account di Netflix»: Ragady è la contessa della “Pazza gioia” di Virzì, è un «siete brutti, siete poveri» che non è più battuta d’aristocratica mitomane ma di rapper brianzolo, uno così concentrato su di sé che non si accorge che c’è la pandemia, per lui il 9 marzo 2020 è il giorno in cui gli si è rotto lo schermo dell’iPhone. Se non sei il rapper, sei quello che di solito gli porta la pizza, «il solito bangladino o il solito laureato calabrese».
O magari sei la militante che s’indignerà. Per l’orfano fascista che vuole sì una famiglia tradizionale, ma mica povera come la coppia di aspiranti genitori molisani: lui è contadino; lei, a «Che lavoro fai?», risponde che mica lavora, sta a casa: «Da noi ci sta lu sessism’, è bell’».
Per gli LGBTQ, «quella comunità che puoi avere tutte le identità che vuoi con un solo account». Per tutti i concetti di fantasia che con maledetto automatismo catalogo mentre guardo, prevedendo scandali da tre quarti d’ora: Bocelli è abilismo, Riccardo Muti è sessismo, la fiaba calabrese è transfobia, Gilda di Bari è razzismo – potrei andare avanti per venti righe, ma insomma avete capito.


Gilda di Bari la conosciamo tutti. È la signora della cerchia dei bastioni coi fiori nel cestino della bici. È l’intellettuale che twitta di non dormire scossa dal pensiero dei profughi. È l’organizzatrice di raccolte di beneficenza tutta giuste cause e colori spenti. Gilda di Bari vuole adottare un profugo ucraino, ma sono finiti. «Vuoi una famiglia di profughi siriani?», «C’ho il parquet scuro, non staccano». Gilda di Bari siamo noi, che ci specchiamo e vorremmo dire «Non mi somiglia per niente», ma non possiamo perché, piangendo, ci viene da ridere: ballo anch’io se balli tu.


E se gli italiani non ci fosse più speranza di rieducarli? Ci penso ossessivamente da mesi, mi chiedo se siamo più ignoranti del nonno di Antonio Pascale che rischiava di venire fucilato dai suoi stessi generali perché, durante la prima guerra mondiale, non capiva gli ordini: parlava solo dialetto. Di sicuro siamo più velleitari, ci sentiamo colti perché sappiamo che non si dice «a me mi». Ma siamo sempre quella roba che diceva Orson Welles a Pasolini: la borghesia più ignorante d’Europa.


E improvvisamente a Firenze mi ricordo il giorno esatto in cui ho cominciato a rifletterci. Un sabato di fine luglio, quando sulla spiaggia di Barletta c’era Luca Medici ospite di Lorenzo Cherubini, e facevano insieme un paio di canzoni, e io protestavo – con loro e poi con voi – perché non avevano cantato Poco Ricco; ma era perché come al solito mancavo il punto. Il punto era la reazione della folla ad Angela.


Angela viene dal primo film di Checco Zalone, ed è un brano melodico. Il fatto che sia melodica basta, alla platea, a trattarla come una canzone d’amore. Non c’era nessuna differenza tra il modo in cui il pubblico pugliese si dondolava su “Angela” e quello in cui si sarebbe, tre ore dopo, commosso su “A te”. D’altra parte, se abbiamo preso per canzone d’amore una che diceva «Ti proteggerò dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai», possiamo equivocarne anche una che dica «faccio la pipì, faccio la pupù, ma con la mia mente sto costantemente ad Angela».


Luca Medici lo sa, sa quant’è lordo e netto il nostro non capire niente di niente, sa che la nostra ottusità è un grande indifferenziato in cui “La vacinada” può venire presa per sessista e “Angela” per romantica; e quindi, quando canta “Gli uomini sessuali” e arriva al punto «quanta gente che vi attacca solo perché non vi piace la patacca», aggiunge: Baglioni, sei finito.


Un’ora prima, in uno dei pezzi migliori dello spettacolo, ha fatto Riccardo Muti. Ci sarebbe da fare un discorso sull’epoca dei sosia, su come non abbiano più senso imitazioni che ci facciano dire «uh, come gli somiglia» in anni in cui tutte le serie tv sono storie vere interpretate da sosia del Bagaglino (che però si danno un tono, imperdonabilità che il Bagaglino vero non commetteva). E su come quindi vada benissimo Riccardo Muti – uno che nessuno in platea sa come parli e quasi neanche che lavoro faccia – perché quello che stai facendo non è un “The Crown” dei direttori d’orchestra: è inventare un personaggio.


A un certo punto il Riccardo Muti dell’invenzione zaloniana dice «Molfetta, città a cui ho dato i natali», e in platea rido quasi solo io. Conosco l’obiezione: a un certo punto, quando scrivo di qualche consumo culturale, c’è sempre un momento in cui dico al pubblico «sì, ma tanto voialtri questo film, questo libro, questo disco non lo capite», sono insopportabile. Però il silenzio che accoglie quella battuta è inequivocabile: in una platea d’una città non particolarmente arretrata, nella nazione con la borghesia più ignorante d’Europa, nessuno capisce cosa ci sia da ridere se sei tu a dare i natali alla città che ha l’onore d’essere il tuo luogo di nascita.


Checco Zalone arriva quasi cinquant’anni dopo Elide Catenacci, il personaggio di “C’eravamo tanto amati” che diceva «Non pozzo magna’ idrocarburi». Oggi rideremmo, o siamo così abituati a un lessico sciatto e approssimativo che non ci rendiamo conto che si chiamano «carboidrati», non ci rendiamo conto che dovremmo ridere della sua ignoranza? Oggi quella battuta lì dovrebbero didascalizzarcela; e infatti, quando il manager di Ragady gli dice «sei cresciuto nell’opulenza», Checco Zalone risponde: Brianza, si chiama Brianza. Oggi, se vuoi essere un comico poco ricco, le battute sofisticate devi costruirle a prova di scemo. Luca Medici lo sa e, piangendo, gli viene da ridere.