Michele Neri per “Oggi”, 10 novembre 2022
''GLI EDITORI SONO DEI TIRANNI'' – DOPO ANNI AL VERTICE DI MONDADORI E RIZZOLI, GIAN ARTURO FERRARI VUOTA IL SACCO: “AGNELLI ESERCITAVA IL POTERE IN UNA VERSIONE SPREZZANTE – BERLUSCONI NON HA MAI INTERFERITO NÉ GIUDICATO A PRIORI. RICHIESTE PRESSANTI ARRIVAVANO NON DA LUI MA DA ALTRI NOMI PESANTI, POLITICI E NON SOLO - CALASSO COLTISSIMO E ALTEZZOSO - GIULIO EINAUDI IDEOLOGIZZAVA LA COMUNITÀ MA ERA POI LUI A DECIDERE - IL CASINO NASCE PERCHÉ LA CULTURA È TROPPO VICINA ALLA POLITICA O OGGETTO DI ATTRIBUZIONE DI VALORI IDEOLOGICI” -
Tra le passioni umane meno note, se non ignorate, c’è quella per l’editoria. Gli oscuri, lenti passaggi che, dietro le quinte, trasportano le parole dalla mente dell’autore agli scaffali delle librerie.
Peccato, perché poche professioni sono più seducenti, inquiete e talvolta rischiose del lavoro editoriale: basta leggere dentro la vita di uno dei condottieri di questo mare di carta, il settantottenne Gian Arturo Ferrari, che ha riversato decenni di esperienza, fino a occupare il vertice dei due big, Mondadori e Rizzoli, nella Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio).
Il romanzo di un adolescente studioso che un giorno provoca il destino, quando rinuncia al tram 35 che dalla periferia di Milano lo porta al liceo Berchet perché, camminando, risparmia le 70 lire con cui comprare un volume della Bur Rizzoli. Fino a diventare il temuto “Dart Fener”, il “Professore” dell’editoria italiana: che ha indovinato, lanciato o fermato il successo di centinaia di scrittori di tutto il mondo.
Di questa gustosa, rivelatrice saga libraria e di un Paese, con troppi cavalieri e poche dame, duelli, caduti e vincitori, Ferrari ci parla in una grande casa milanese simile alla tolda di una nave. Libri ovunque, spolverati e in ordine alfabetico.
Lei descrive editori assai diversi per indole e formazione. Passa dalla coppia delle origini, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, gemelli per povertà di nascita, odio reciproco e mancanza di cultura (seconda elementare il primo, quinta il secondo), al coltissimo e altezzoso Roberto Calasso di Adelphi, al signorile Valentino Bompiani per cui dovere dell’editore è portare amore. Una caratteristica comune a tutti? «Sono dei tiranni: hanno bisogno di una comunità di fedeli, adepti, esecutori, si devono fidare e non possono. Anche chi, come Giulio Einaudi, ha ideologizzato la comunità, era poi lui a decidere, sempre sulla lama del coltello, tra servire la cultura e obbedire alle leggi economiche, sospeso tra Dio e Mammona. Delle loro pene, gli editori non possono parlare».
Lei ha insegnato a lungo Storia del pensiero scientifico all’Università di Pavia, eppure sostiene che il lavoro editoriale è il cuore della vita intellettuale. Perché? «Perché tutto passa dai libri, il bene e il male. Altre culture, come l’accademia, sono riparate, provviste di ombrelloni. L’incertezza è alla base della vita intellettuale di una comunità. Il bello dell’editoria è il rischio costante».
Sembra che in Italia questo rischio non si sia limitato all’insuccesso di un titolo, ma abbia assunto ben altre dimensioni. Dalla dipendenza ideologica di Einaudi, sospinta prima dal ’68 e in crisi con il tramonto del marxismo; al rischiato fallimento di Mondadori per la voragine finanziaria di Rete 4, alla disastrosa scoperta per Rizzoli, nell’81, degli elenchi della loggia P2… Una fragilità tutta nostra? «In altri Paesi l’editoria ha fondamenta più stabili. Da noi il casino nasce perché la cultura è troppo vicina alla politica oppure oggetto di attribuzione di valori ideologici. Altrove è un’industria indipendente, da noi la cultura è asservita: quando il sistema balla, è costretta a ballare».
Lei ha affrontato proprietà impegnative: Gianni Agnelli in Rizzoli e Silvio Berlusconi in Mondadori. Qual era il metodo Agnelli? «Esercitare il potere in una versione antica, sprezzante. Quando ero direttore dei Libri Rizzoli, il giovedì arrivava l’amministratore delegato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, Giorgio Fattori. Di fronte ad alcune proposte, prendeva tempo. Era chiaro che si sarebbe poi incontrato con Agnelli, restato nell’ombra. Il giovedì successivo Fattori arrivava con la sentenza: “Non piace”».
Lei era a capo di Mondadori con Berlusconi padrone della casa editrice, di televisioni e presidente del Consiglio. Come si è comportato? «Non ha mai interferito né giudicato a priori. Richieste pressanti arrivavano non da lui ma da altri nomi pesanti, politici e non solo. Riuscivo ad arginarle e lui non mi ha mai condizionato».
È stato lei a mentirgli per Capitani di sventura di Marco Borsa? «Avevamo pubblicato questo saggio critico nei confronti del capitalismo italiano: di Berlusconi non parlava. Pensavo ne sarebbe stato felice invece si arrabbiò perché Cesare Romiti, uno dei bersagli di Marco Borsa, lo accusò di averlo pubblicato apposta. Di fronte al suo divieto di ristamparlo, ho proceduto lo stesso, solo senza scrivere dentro “seconda”, “terza”… edizione».
Cinque eventi che hanno trasformato l’editoria italiana? «La nascita delle due collane economiche: Bur di Rizzoli e Oscar di Mondadori. Il coraggio di Adelphi nel pubblicare Nietzsche, esecrato dal marxismo; Il dottor Zivago pubblicato da Feltrinelli e il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi; basta aprirlo per capire quanto poco sappiamo della letteratura mondiale».
Un tempo il libro dei sogni di ogni editore era uno scritto da un Papa. Fu lei a pubblicarlo in Mondadori: Varcare la soglia della speranza, scritto da Wojtyla, che rispondeva alle domande di Vittorio Messori. E oggi, il libro dei sogni? «Le grandi figure si dividono in due. Gli anglosassoni, concluso il loro ufficio da presidenti o altro, pubblicano un libro di memorie e in cui raccontano una parte di verità. In Italia non succede. E i dittatori, che non scrivono mai come sono andate le cose. Se Putin o XI Jinping raccontassero qualche verità, anche poche... Magari, un manoscritto di Berlusconi… Hanno tentato, anch’io, ma non ha voluto».
La scelta più rischiosa? «Pubblicare i Versi satanici di Salman Rushdie quando nessun altro lo faceva».
L’errore che non dimentica? «Un errore di trattativa: perdere Jurassic Park di Michael Crichton».
La giornata più adrenalinica? «Una serata: quella del Premio Strega 1989 quando siamo riusciti a far vincere Giuseppe Pontiggia che ha superato il favorito Roberto Calasso. Quanto ho goduto a fregare i benpensanti, l’opinione colta che circonda i libri, quel museo delle cere».
Conferma che il vincitore dello Strega è deciso a tavolino a dicembre? «Sì, prima era fatto in modo esplicito, ora è più sfumato. La decisione è presa a inizio anno ma non sempre va a buon fine».
Milano, scrive, è stata il miglior ristorante dei libri. Lo è ancora? «Da anni l’editoria è un pullulare di case microscopiche distribuite sul territorio, non ci sono più baobab ma tante margheritine. Languono, frenate dai pochi lettori. Da noi la politica non ha mai affrontato un dato: il nostro mercato è un terzo di quello francese anche se la popolazione quasi si equivale».
La più bella tra le margheritine? «NN e poi Iperborea di Emilia Lodigiani».
Consiglierebbe a un giovane di lavorare in una casa editrice? «Sì, perché tutto ciò che ha cambiato il mondo è partito da un libro. I libri sono quel binocolo che, dal ponte della nave nel mare tempestoso, scruta l’orizzonte».
Perché non ha mai fatto l’editore in proprio? «Sono un piccolo borghese pauroso, non pensavo di trovare i soldi necessari: prima devi averli, poi fai i libri».
Se la storia dell’editoria fosse un film, quale titolo sceglierebbe? « Via col vento. Domani è un altro giorno, perché ogni volta cambia tutto».
Elena Ferrante ha avuto successo per l’anonimato? «Sì e per quella carica sentimentale difficile da rendere nella scrittura».
Il libro si chiude con amarezza: parla della libertà come di una condizione cui non siamo abituati. Perché? «Perché in Italia la cultura non è considerata in sé ma riferita ad altro: l’editoria non dovrebbe essere un’appendice della politica. Negli altri Paesi, Stati Uniti soprattutto, l’autonomia è scontata. E siamo un Paese chiesastico, abituato a pensare che ci siano cose che si possono leggere e altre no».
Alla fine si tratta di spingere un libro nelle mani del cliente. Cosa influisce sulle scelte in libreria? «Dalla mia osservazione diretta: per prima cosa conta l’immagine, poi titolo e autore; se il cliente prende il libro in mano è un passaggio decisivo, se guarda il prezzo è un ottimo segno, poi tocca alla lettura della bandella».
Usa il Kindle? Nemmeno una? «No. Me li ricordo tutti».