la Repubblica, 9 novembre 2022
Pier Giorgio Bellocchio parla del padre
A Pier Giorgio Bellocchio sono toccati il cognome del padre maestro del cinema e il nome dello zio fondatore deiQuaderni Piacentini. «C’è stato un momento in cui puntualizzare che il mio nome era diverso da quello di mio zio Piergiorgio era diventata una fissazione. Oggi non mi pare più che sia importante». In Esterno notte, la serie evento su Rai 1 (14, 15 e 17 novembre) sul rapimento Moro visto dalla prospettiva dei protagonisti, l’attore è il capo della Digos, Domenico Spinella. Nella conversazione tra i tavoli di un bar romano Pier Giorgio, 48 anni, ripercorre il rapporto con Marco (lo chiama papà solo nelle situazioni familiari).
Il primo ricordo di cinema?
«Sono cresciuto sui set. Il primo è
Vacanze in Val Trebbia, ma ero troppo piccolo. DiSalto nel vuoto, a 7 anni, ricordo gli Studi De Paolis dove era stato ricostruito l’appartamento dei fratelli protagonisti. Da poco ho rivisto un fontanile in cui immergevo un sommozzatore giocattolo. Ero entrato nelle grazie di Anouk Aimée. Ricordo la scena con Michel Piccoli che buca il pallone con cui giocavo: non battevo ciglio, sapevo di averne uno scatolone. Solo quando finsero che erano finiti scoppiai a piangere e portammo a casa il ciak».
Era curioso del set?
«Di tutto. Ho una foto da bambino vestito da elettricista, ero affascinato da riprese, fotografia, luce. Tentai il Centro sperimentale, non entrai, “troppo acerbo”. La presi malissimo, avevo fatto film da da volontario. A 15 anni ero sul set diLa condanna ».
Perché non tentò come attore?
«Sono figlio di Marco e Gisella (Burinato, ndr.), una grande attrice che insegna da tanti anni. Sono cresciuto in una casa frequentata da attori, ti ci ritrovi dentro senza consapevolezza. Quando i miei si sono separati ho trascorso un inverno da mia nonna a Monza. Ho smesso di recitare e ho ripreso a diciott’anni. Ho fatto tanto teatro, oggi è più difficile perché ho alzato le ambizioni. Sono inquieto per natura,perciò faccio cose diverse. Per Marco invece se ne deve scegliere una sola».
È stato anche presto produttore.
«Con gli amici Manetti Bros avevamo fattoDe Generazione. Marco all’epoca voleva diventare produttore di se stesso, aprì una società, ebbe la pensata non brillante di chiamarmi come socio. Avevo diciotto anni, non mi è stato dato il tempo di sbagliare. Ho rischiato di restarne schiacciato, tanto che horallentato, quasi smesso. Mi sono sposato, sono diventato padre».
Che produttore è lei?
«Lavoro più sulle persone che sulle storie, le chiamo fusioni a caldo. Puoi prendere la sceneggiatura migliore, e un regista cane ne farà un film orrendo. Ora produco la saga diDiabolik ma anche il fantasociale La guerra del Tiburtino III».
Suo padre da “La balia” in poi l’ha voluta attore nei suoi film. Ma
lei ha lavorato anche con Ciprì, Guadagnino, Negri, Zaccaro...
«Penso che sia più contento quando sono sul set, ma un artista nella forma più alta come è lui ha un cinismo supremo, nelle scelte non guarda in faccia a nessuno».
Difficile essere figlio di un grande regista?
«Col tempo ho capito che è difficile essere figlio di Marco Bellocchio, con il suo percorso, le scelte, quello che si è portato dietro, il livello dell’asticella. Non sono stati rose e fiori, ma sono sopravvissuto».
Quando vi siete ritrovati?
«Papà è cambiato quando è nata mia sorella. Ho ricordi da bambino della famiglia completa, i fratelli che non ci sono più, i loro rapporti, i misteri. La tragedia del gemello suicida di Marco l’ho ricostruita attraverso spezzoni di racconti da mamma, dalle zie. Ma mai ero riuscito a farmi dire da mio padre quello che poi ha raccontato a tutto il mondo. Marx può aspettare è stato importante. È un film per noi della famiglia, anche se poi non c’è spettatore che non vi ritrovi pezzi della propria vita».
Girare “Esterno notte”?
«Sono l’unico attore che aveva recitato inBuongiorno, notte, solo che allora facevo il brigatista. Il periodo storico lo conosco, in famiglia se ne è sempre parlato. Con Spinella ho approfondito il punto di vista delle istituzioni. È un personaggio ambiguo, fa parte dell’apparato, ma non del sistema.
Forse prova più degli altri a trovare una strada, ma non insiste».
Sarà nel film “La conversione”, su Edgardo Mortara?
«No. Per Marco ero troppo bello per quei personaggi. L’estate scorsa, sono un provocatore come lui, gli ho detto: vuoi vedere che nell’unico film in cui non ci sono vinci l’Oscar?
Giorni dopo mi ha chiamato per la scena in cui gli anticlericali assaltano il funerale del Papa. È stato bello».
I vostri rapporti oggi?
«Alla pari. Ci vediamo spesso, siamo sintonici, ci scambiano per fratelli.
Le strade artistiche si intrecciano, ma io vado avanti per la mia».