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 2022  novembre 09 Mercoledì calendario

Intervista al fotografo Anton Corbijn

Leggenda vuole che, all’apice della sua carriera, Anton Corbijn fu contattato da un grosso gruppo editoriale che voleva realizzare un libro coi suoi lavori più importanti, e che lui, piuttosto che accettare, contattò la stessa casa editrice di nicchia che pubblicava Helmut Newton e Joseph Beuys. «Diventare il gusto del mese non mi è mai interessato — sorride — e, per quel che mi riguarda, ho sempre voluto fare qualcosa che sarebbe rimasto nel tempo.
Penso sia importante che un fotografo tenga al proprio lavoro. È tutto ciò che ha». Per chi non lo conoscesse, Corbijn, nei suoi quasi cinquant’anni di carriera, ha creato l’immaginario che ruota attorno a gruppi come i Depeche Mode e gli U2, ha immortalato Tom Waits, David Bowie, i R.E.M., Kurt Cobain, Bjork e molti altri, ha diretto videoclip e lungometraggi di successo. Ha scattato, ancora, la celebre immagine di Ian Curtis dei Joe Division poco prima che si togliesse la vita e, da quell’episodio, ha preso spunto per girare il suo primo film, Control . Nato in una famiglia molto religiosa (suo padre era un predicatore protestante), Corbijn è cresciuto su una piccola isola di nome Strijen, nell’Olanda meridionale. Si è fatto strada scattando per le riviste musicali del suo paese e poi, incuriosito dal mondo esterno, ha deciso di partire. Oggi confessa, e lo fa con un candore disarmante, che la maggior parte dei suoi scatti sono nati in cinque, dieci minuti al massimo e, quando lo dice, non si ha affatto la sensazione di ascoltare una sciocchezza.
Eppure, il titolo di questa sua mostra aperta fino al 28 gennaio 2023 e curata da Walter Guadagnini all’E.ART.H. — acronimo di Eataly Art House — di Verona, èStaged , ovvero costruito, messo in scena.
Cinque minuti, clic, e la foto è perfetta?
«Credo che se una foto ti coinvolge, se c’è un qualche movimento, allora va bene. Se per perfezione si intende quando è tutto nitido, beh, a me quello, in tutta onestà, non è mai interessato. Ai miei tempi si stampava la foto e, nel processo, si creava l’identità. Mi piacciono le possibilità che offre il digitale, ma non voglio usarlo come un trucchetto. E poi questa nitidezza nelle immagini, a cui siamo ormai abituati, non fa bene agli occhi».
Facciamo un passo indietro: a un certo punto lei ha lasciato tutto e se n’è andato a Londra. Per amore della fotografia, dice, e della musica. Era poco più di un ragazzino.
«Ho iniziato a scattare fotografie quand’ero in Olanda, all’epoca lavoravo per alcune riviste musicali. Nel momento in cui ho messo piede a Londra, tutto è cambiato. È che ogni cosa accadeva lì, in quel momento. Sai, era la fine degli anni Settanta. Quando sono arrivato in città, i The Clash avevano appena pubblicatoLondon Calling . In Inghilterra ho subito sentito che era molto meglio che scattare foto in Olanda. Sentivo che…»
Cosa sentiva?
«Sentivo che alla gente, ecco, importava davvero qualcosa. Quello che facevano i musicisti, per esempio, era questione di vita o di morte. E anche se gli artisti vivevano interribili case popolari, non lo facevano soltanto per spirito di sopravvivenza. Era qualcosa di più».
Anche lei, all’inizio, non se l’è vista bene.
«Arrivato in Inghilterra me ne andai a vivere in una casa abusiva».
Ha fatto tanta gavetta?
«Faccio foto in maniera svelta proprio perché vengo da un’ottica in cui avevo due, tre minuti al massimo. Quando stavo ancora in Olanda, i musicisti che venivano a suonare in città rilasciavano le interviste ai quotidiani locali, e ogni intervistatore portava con sé un fotografo. Io ero uno di loro. Anche oggi esco solo con la mia macchina fotografica, senza luci o attrezzature, e ogni volta che vado a fare una foto devo mettermi alla prova, inventare qualcosa di nuovo».
È diventato famoso con la stessa rapidità, però. Pensa fosse più facile, a quei tempi, diventare famosi?
«Non lo so, perché conosco solo la mia strada.
Penso di essere stato conosciuto in un’epoca in cui le cose erano più facili, in tal senso. Bastava fare un lavoro che piacesse alla gente ed essere pubblicato sui giornali».
Oggi ci si fa conoscere in altri modi.
«Oggi, coi social, è tutto diverso ma trovo sia un modo un po’ innaturale di farsi conoscere.
Intendo dire che uno dovrebbe diventare celebre per le proprie qualità, non attraverso un marketing per così dire intelligente. Detto ciò, credo di essere stato molto, molto fortunato. Se non avessi incontrato gli U2, per esempio, la mia vita sarebbe stata con ogni probabilità diversa».
In Staged sono esposti circa ottanta suoi lavori, fra i quali spiccano una serie di autoritratti in cui lei si traveste da Janis Joplin, Elvis, John Lennon, e altri idoli musicali. Crede che per un fotografo ruoti tutto, sempre, attorno a sé stesso?
«Tutto ciò che fa un fotografo è un autoritratto, ma è un’altra questione quando si mette sé stessi davanti l’obiettivo. Gli autoritratti di questa serie sono diversi: mi sono semplicemente inserito dentro il contesto della fotografia».
Il suo ultimo lavoro, appena terminato, è un documentario.
«Si intitolaSquaring the Circle e parla dei disegnatori di dischi negli anni Settanta. Lo abbiamo proiettato a fine agosto a un festival in Colorado, c’erano solo quaranta film e nessuna roba da red carpet. Situazione perfetta, insomma. L’anno prossimo, però, cercherò di fare un nuovo film».