Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 06 Domenica calendario

Su "Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare" di Lietta Manganelli (La nave di Teseo)

Ci sono innumerevoli chiavi d’ingresso per accedere a questo libro, e cioè nel racconto della vita di Giorgio Manganelli scritto da sua figlia Lietta e intitolato Aspettando che l’inferno cominci a funzionare: la famiglia, gli amori, gli odi, il lavoro, la scrittura, le patologie psichiche. Il protagonista, nato il 15 novembre di cent’anni fa, offre un tale miscuglio di stranezze e genialità da far girare la testa. E Lietta Manganelli racconta queste stranezze e queste genialità, che hanno inciso ferite nella sua pelle, con tanta ironica malinconia da accrescere la vertigine. Ma soprattutto con un amore e un’ammirazione totali da parte di una figlia che non riesce proprio a detestare suo padre anche quando ragionevolmente potrebbe.

Certo, di quel «tapiro», isolato nell’arte come nella vita (così Luciano Anceschi ai tempi del Gruppo 63), si sapeva già tanto, ma mai abbastanza. E rivederlo dalla prospettiva della figlia è emozionante. Il fatto è che non si riesce ad afferrarlo una volta per tutte, perché il Manga è un paradosso vivente (e sempre quasi morente). Si dice vigliacco ma lo troviamo eroico partigiano durante la Resistenza nei pressi del paese materno, Roccabianca, nel Parmigiano. È un fedifrago e un misogino che soffre sinceramente per ogni amore possibile (l’elenco è lungo: si va dalla moglie Fausta Chiaruttini ad Alda Merini, da Viola Papetti a Ebe Flamini, e chissà a quante altre). È un sedentario imbranato ma a un certo punto comincia a viaggiare ovunque per i giornali (in Malaysia e in Argentina, nel Nord Europa, in Cina, in India...). Non può fare a meno di sua madre ma ha tentazioni matricide fino a passare alla minaccia fisica. Sottovaluta suo padre Paolino per una vita e lo esalta nel ricordo postumo. È felice di rivedere sua figlia Lietta ormai cresciuta (dopo tantissimi anni di lontananza e per iniziativa di lei) ma spesso manca agli appuntamenti (e sono pagine forti quelle in cui il padre vuole tenere nascosti i suoi numerosi «scheletri nell’armadio»).

È, ovviamente, uno scrittore esorbitante e mortuario, evasivo e concreto, sempre impegnato nelle sue «cerimonie con l’ombra». E sappiamo bene che si tratta più che altro di ombre cinesi, visto che l’idea di scrittura di Manganelli si riassume in un titolo divenuto un cliché: Letteratura come menzogna. Un motto forse inattendibile a sua volta, se si pensa alla giocosa ambiguità della sua formulazione programmatica: «Il vero detto come falso, il falso detto come vero, ecc.». Fatto sta che Lietta Manganelli si propone un doppio obiettivo doppiamente impossibile: fare i conti con le ombre (e con le menzogne e gli enigmi) di suo padre e sfatare le piccole grandi «leggende metropolitane» che lo hanno accompagnato. Quel che stupisce, alla fine, è la quota di verità che ne viene fuori, perché Manganelli, nonostante tutto ciò che fa credere la sua opera, ha vissuto una vita vera, anzi tante vite vere, oltre alle tante altre vite immaginate così convintamente da diventare vere anche loro. «Verità come menzogna», si potrebbe azzardare.

Su queste basi, non è casuale che il nucleo più forte, vero e sicuro del rapporto che, nonostante tutto, ha legato indissolubilmente e lega Lietta a suo padre sia una favola, autentico Leitmotiv di questo libro-vita. È quella che papà Giorgio, finché resta in casa, racconta spesso alla sua bambina, facendola sedere accanto a lui sul divanetto rosso di casa. A rimanere impressa nella memoria di Lietta è la storia di San Giorgio e il drago vista dalla parte del drago, una reinvenzione burlesca della leggenda agiografica, che si ritroverà, intatta o quasi, diversi decenni dopo, in Centuria, la famosa raccolta di brevi «romanzi fiume» uscita nel 1979. È una storiella-talismano come il gatto di Liuba nella poesia di Montale, che servirà a Lietta da «splendido lare» quando la famiglia sarà ormai irrimediabilmente dispersa (per separazione, forse per odio, forse per sfinimento della madre Fausta).

A questo punto bisognerebbe elencare i personaggi della stramba saga famigliare Manganelliana: personaggi ambivalenti e romanzeschi in natura, per di più irradiati di inverosimiglianza dalla personalità improbabile dell’iper-romanzesco protagonista. A cominciare da Amelia, la madre del Manga e suo nume tutelare, poetessa, credente fino all’estasi, pia e anche un po’ arpia; per proseguire con suo marito Paolino il depresso, che riuscì a rivelare ai figli il suo segreto terribile un attimo prima di andarsene. Renzo, l’adorato fratello maggiore, desiderato e amato anche dai genitori, a differenza di Giorgio. Poi c’è la moglie del Manga, la fascistissima giovanissima bellissima triestina Fausta, misteriosa, insofferente, scontrosa, poetessa pure lei tanto per cambiare, dalla quale il marito, adorante e dolente, viene respinto subito dopo le nozze (anzi già prima): lo vedremo in corridoio con le valigie ai piedi (ovviamente preparate dalla Faustina che gli indica la porta). Donna del tutto «incapace di empatia». Un esempio: quando il fidanzato Giorgio, tormentato dalla lontananza, invia alla «fanciulla dalla bella capellatura» un dolce racconto romantico per comunicargli che la raggiungerà al suo paese per l’Epifania, lei non si lascia commuovere e gli risponde: «Comprato braciole, urge pangrattato». «Vedi, non sono assolutamente capace di amare le persone brutte», confesserà Fausta alla figlia per spiegare il suo disgusto per Giorgio. Pur tuttavia, le accuse di opportunismo rivolte da Lietta alla madre si alternano con le aperture a sua discolpa.

Il libro è pieno di simili momenti di assurdità in pagine ritmate da passi avanti e passi indietro, ritorni, parentesi, digressioni. Lietta si avvale di lettere edite e inedite, di documenti d’archivio, di ricordi personali e di memorie riportate da altri. Per esempio, ricorrerà alle testimonianze di Maria Corti per ricostruire certi passaggi tragicomici della relazione tra Alda Merini e suo padre: il quale accompagnerà la giovane poetessa fragile, conosciuta nel 1950, dallo psicanalista generando nel dottore il sospetto che è lui il vero matto bisognoso di aiuto. Quando poi Alda rivelerà a Fausta che è innamorata di suo marito, si sentirà rispondere: «Ma se lo prenda, benedetta, se lo prenda!». Sarà comunque Giorgio ad assistere Alda durante i primi ricoveri. «Il Manga — postilla Lietta — non abbandona mai nessuno». Il che è vero e non è vero.

Certo è che Lietta, che anche fisicamente somiglia come una goccia d’acqua al Manga, ha lo stesso destino del padre Giorgio: essere indifferente alla madre. Anzi, peggio di Giorgio, che tutto sommato qualcosa con sua madre Amelia ha condiviso (la poesia). Lei, Lietta, si considera «una nota a margine» e si augura di riuscire un giorno a raccontare come e perché in una sua autobiografia. Sempre sulla linea dei personaggi, vanno almeno segnalati il professore del Manga e suo relatore di laurea a Pavia, Vittorio Beonio Brocchieri, l’irruzione dell’ingegner Gadda in preda alla paranoia (la ragazzina relegata per un’ora sul balcone), nonché il rapporto goliardico di Giorgio con l’amico scrittore Augusto Frassineti: Lietta narra alcuni sketch esilaranti dei due, quando il Manga si è già stabilito a Roma lasciando l’amata-odiata Milano (amata soprattutto per la sua «naviglità»).

A Roma, si sa, lo «psiconevrotico» Manganelli, con l’assillo di trovare un lavoro e di un guadagno accettabile (sarà via via docente universitario, consulente editoriale, traduttore, giornalista...), in preda sempre più a terribili crisi depressive e assalti d’angoscia, grazie all’intercessione dell’amica Vittoria Guerrini (in arte Cristina Campo) finirà tra le braccia del grande psicoanalista junghiano Ernst Bernhard. Per curare la «belva acquattata e mai vinta», il contributo dei sogni sarà fondamentale. Fondamentale come la scrittura, spesso a sua volta originata dal sogno, sin dalle prime prove o intenzioni, che porteranno all’esordio di Hilarotragoedia. E questo è solo l’inizio.