La Stampa, 10 novembre 2022
Intervista a Vittorio Emanuele Parsi
Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali all’Università Cattolica di Milano e direttore dell’Aseri, ha scritto per Bompiani Il posto della guerra e il costo della libertà, saggio in cui riflette sulle implicazioni dell’aggressione russa in Ucraina, non solo - scrive l’autore - «una dichiarazione di ostilità mortale nei confronti di quel paese, ma è anche un’esplicita aggressione all’Occidente democratico e ai principi e alle regole su cui si fonda».
Professor Parsi, scrive che la guerra di Putin non è solo una «dichiarazione di ostilità nei confronti dell’indipendenza nazionale ucraina» ma un attacco al cuore dell’ordine internazionale, lo stesso che ha garantito in Europa ottant’anni di pace. In cosa l’invasione russa in Ucraina ci minaccia?
«Intanto nel mettere in discussione i principi sui quali è stato possibile non solo costruire le regole che hanno garantito 80 anni di pace e di convivenza anche tra Paesi ostili - come è stato durante la Guerra fredda - ma anche l’efficacia delle istituzioni che esistono sulla base della validità di quei principi e di quelle regole. Mi riferisco al sistema delle Nazioni Unite, che è in gravissima crisi in questo conflitto, e il sistema dell’Unione europea, minacciato dalla Russia che cerca di usare le risorse energetiche come arma per poter imporre un principio che viola qualunque norma, anche la sovranità di uno stato confinante e l’annessione dei suoi territori».
La pace tra le democrazie, scrive, è la sola pace irreversibile. Eppure uno degli effetti di questa aggressione è che le democrazie vengano trattate al pari dei regimi autoritari, col rischio che si confondano aggredito e aggressore.
«Certo, è la sola pace irreversibile. Pensiamo alla storica, lunghissima inimicizia tra Francia e Germania che ha caratterizzato 150 anni di storia europea. Da quando i due paesi condividono lo stesso regime democratico, la stessa economia di mercato aperta, lo stesso modello di società aperta, non si percepiscono più come aggressive e minacciose le une rispetto alle altre, e restano dove sono sempre state negli ultimi 150 anni».
Nel dibattito pubblico italiano, le ragioni dell’aggredito e dell’aggressore sono diventate equivalenti.
«È la Russia di Putin ad aver aggredito una democrazia e non il contrario».
O la NATO che ha provocato la Russia?
«L’idea che la sicurezza russa sia stata minacciata da un espansionismo della Nato non sta in piedi. Chiunque studi queste cose o abbia osservato gli ultimi trent’anni, sa che tutti i Paesi che uscivano dall’esperienza dell’Unione sovietica, tutti, nessuno escluso, hanno scelto di stare con l’Occidente, con la Nato, con l’Unione Europea, perché rappresentavano un’idea di società aperta, e perché offrono possibilità di uno sviluppo autonomo e del progresso rispetto a società chiuse e sistemi autoritari non attrattivi come quello russo».
La guerra russa in Ucraina è una guerra insieme moderna e antichissima. Una guerra di droni e di trincee, di cieli e di fango. Di Starlink e fosse comuni. C’è l’evocazione delle peggiori stagioni del Novecento, ma anche alcuni irrisolti del secolo scorso.
«Molti commentatori continuano a leggere la storia novecentesca come dominata dal tema del declino europeo. Il tema della storia novecentesca è invece quello dell’avvento di una concezione di politica internazionale liberale e democratica che ha connotato il sistema politico europeo del secondo Dopoguerra, che ha consentito la costruzione di democrazie solide, laddove c’erano sistemi autoritari o democrazie fragili, e che ha costruito una nuova idea di Occidente. Chi non riesce a uscire dalla critica all’Occidente, a mio avviso, non capisce che il Novecento rappresenta questo, l’avvento della società mondiale nella quale l’Europa, in quanto democratica, ha giocato e tuttora gioca un ruolo decisivo».
Nel libro parla di tre regioni dall’equilibrio fragile: il continente europeo, lo stretto di Taiwan, il Medio Oriente. Che futuro ci aspetta se la Russia vince questa guerra?
«Oggi ci troviamo di fronte a una Russia indebolita, sempre più legata al regime iraniano, con il quale ha una collaborazione crescente nel Levante sin dall’inizio della guerra civile siriana».
L’Iran, a sua volta, si appoggia alla Russia per aumentare la sua capacità repressiva interna.
«In termini prospettici, il punto è che se la Russia fosse in grado di violare impunemente i principi fondamentali del diritto internazionale, sarebbe un precedente anche per altri. Penso alla crisi di Taiwan. Di fronte a una resa ucraina, la Cina si troverebbe di fronte un Occidente debole che ha perso la guerra con la Russia, e questo aumenterebbe la possibilità per i cinesi di commettere lo stesso errore di Putin e potrebbe avvicinarci ad una deflagrazione mondiale. Chi agita lo spauracchio della guerra mondiale non capisce che la resa nei confronti della Russia avvicina la prospettiva di un conflitto globale tra Cina, Russia, Europa e Stati Uniti».
L’altro scenario è il Medio Oriente.
« Sì. Se la Russia dovesse prevalere, sia gli israeliani sia i sauditi potranno pensare che sia fondamentale agire contro l’Iran prima che quell’alleanza si saldi eccessivamente e che l’Iran entri in una sfera di protezione russa. Contemporaneamente, l’Iran stesso potrà pensare che avendo le spalle coperte dalla Russia e avendo una grave crisi interna, potrebbe cercare di risolvere la questione aumentando la tensione in quel quadrante».
Ci sono delle parole che a suo avviso, oggi, andrebbero ripensate?
«Ho riflettuto molto sul concetto di valore, di coraggio. Il coraggio in questi mesi è stato trattato come un impiccio, causa di ulteriore scocciatura e non come una forma con cui un popolo aggredito sceglie di difendere la propria libertà. Il coraggio sembra una colpa contrapposta a un realismo che altro non è che cinismo travestito da nobili ideali. Trovo inaccettabile che gli stessi che ritenevano inutile che gli ucraini si difendessero perché era scontato che avrebbero perso, contemporaneamente parlassero del valore assoluto della pace. Sono gli stessi che oggi dicono - di fronte alle vittorie ucraine - che è pericoloso che l’esercito di Kyiv vada avanti a difendersi. C’è un capovolgimento della logica, sembra di assistere ad una replica di quello che Orwell descriveva nella Fattoria degli animali o in 1984».
Che significato ha, oggi, la parola autodeterminazione?
«L’autodeterminazione deve stare dentro il concetto di sovranità. Ho sentito figure molto autorevoli dire pubblicamente che "la sovranità non è tutto". Ma se noi eliminiamo la sovranità dal diritto e dalla politica internazionale, torniamo alla barbarie. La sovranità è stata un modo di incivilire la politica internazionale, oggi da un lato si nega che la sovranità sia un elemento costitutivo, dall’altra parte si rivendicano forme di autodeterminazione. Pensiamo al Donbass, e a quanto questa autodeterminazione in realtà sia una etero-determinazione».
La guerra in Ucraina ha fatto emergere non una ma molte contraddizioni. Una su tutte, affidarsi ad altri autocrati - penso a Erdogan, naturalmente, ma anche ai sauditi per lo scambio di prigionieri - per cercare un negoziato altrimenti impossibile. Una cecità su cui l’Europa si è distinta negli ultimi anni, incapace di anticipare il futuro, rischiando di seminare le instabilità di domani.
«Il rischio è senza dubbio quello di legittimare questi paesi che si propongono come interlocutori, anche quando poi l’intermediazione porta a risultati minimi. L’intermediazione turca sul grano a che cosa ha portato in termini di quantità effettivi di grano rimesse sul mercato? L’intermediazione saudita a che cosa ha portato se non appunto allo scambio di qualche decina di prigionieri di guerra? Intanto, però, i sauditi sono rientrati dalla porta di servizio in quella comunità internazionale da cui erano stati espulsi dopo l’omicidio Khashoggi. È questo il grande pericolo. Un conto è chiedere alla Cina - che pure è un regime autoritario come altri mai - di esercitare un’azione di moderazione sulla Russia. Perché quello che potrebbe offrire questa influenza, se la Cina lo volesse, avrebbe un impatto considerevole sugli esiti del conflitto. Un altro conto è chiedere a sauditi e turchi che possono offrire leve di influenza infinitamente minori rispetto al governo cinese. Quindi, mi domando, che senso ha andare con il cappello in mano di fronte a regimi che sono sempre più stridenti con il nostro futuro?».
Quali sono i rischi?
«Vede, la sicurezza delle democrazie passa dalla diffusione dell’idea di democrazia nel sistema internazionale. Che non vuol dire proselitismo, ma continuare a fare in modo che la democrazia sia il punto di riferimento dei sistemi dei regimi politici. Non c’è nessun eurocentrismo nella mia analisi, mi limito a constatare che le istituzioni internazionali sono fatte a ricalco delle istituzioni democratiche, nonostante siano sorte durante la guerra fredda o immediatamente prima della Guerra fredda. Questo significa che noi dobbiamo fare in modo che il mondo continui ad essere un posto sicuro per le democrazie. Se ci illudiamo che un mondo guidato da autocrazie, o in cui le autocrazie acquistano sempre più peso e autorevolezza, sia un mondo in cui noi continueremo a restare democratici, ci illudiamo».
La libertà, scrive, ha un costo che va contabilizzato, sul piano economico e su quello politico e sociale. E le nostre democrazie sono esitanti. Che costo ha la libertà? E, alle porte di questo autunno complicato, pensa che le nostre società siano disposte a pagarlo?
«L’ecologia politica - il costo della libertà di cui parlo - significa che dobbiamo ridurre la vulnerabilità delle democrazie rispetto ai sistemi autoritari. Non possiamo dipendere dalle importazioni di paesi autoritari e aggressivi e da esportazioni verso paesi autoritari e potenzialmente aggressivi, come Russia e Cina. Questo comporta dei costi, naturalmente, e comporta ridurre alcune quote di mercato e contemporaneamente aumentare alcuni costi di produzione. Ma la democrazia non è un pasto gratis. Legandoci alla Russia, dal 2014 al 2022 abbiamo raddoppiato la dipendenza dal gas russo: siamo stati miopi. Per capire tutto questo, per renderlo chiaro alla gente, il dibattito dovrebbe porre all’opinione pubblica delle alternative coerenti e precise tra cui scegliere. Servirebbe però un dibattito che non enfatizzi le paure delle persone, ma le aiuti ad affrontare con lucidità un legittimo sentimento di preoccupazione. Spesso, invece, il dibattito pubblico è come una nave nel mare in tempesta in cui, difronte al panico dei passeggeri, il comandante e l’equipaggio dicono "sì, siamo spacciati". Ecco, quando vedo certi intellettuali riflettere in pubblico sulla guerra, ho l’idea di tanti comandanti Schettino».
Si moltiplicano gli appelli per la pace e contro la guerra. Gli appelli al negoziato. Lei sceglie di titolare il suo libro: il posto della guerra. E scrive che ripensare la guerra è un esercizio etico prima che politico. Qual è il posto della pace, professore?
«Certo non quello illusorio del "cambiamento dei cuori", delle marce e delle parole d’ordine che consentono di mettersi la coscienza a posto e di fuggire dalla realtà. Il posto della pace è quello che si raggiunge dissuadendo anche militarmente l’aggressore, combattendo per ripristinarla, se necessario. Il posto della pace non coincide mai con la resa di fronte a un’aggressione. Un matrimonio riparatore dopo lo stupro di un popolo, quello no, non potrà mai essere il posto della pace».