La Stampa, 10 novembre 2022
Riccardo Muti contro la sinistra
Maestro Riccardo Muti, in epoca di #MeToo, come sarebbe stato accolto il Don Giovanni di Mozart che lei dirigerà al Teatro Regio di Torino il prossimo 18 novembre?
«Il Don Giovanni ma anche Le Nozze di Figaro o il Così fan tutte, se si continua ad insistere spesso erroneamente sul politically correct, sarebbero stati censurati».
Don Giovanni ingannava e usava le donne.
«Il trattare le donne come oggetti è un delitto da sempre. Ma bisogna saper leggere i libretti dell’opera. Non ci interessa il Don Giovanni seduttore, che poi non seduce nessuna perché dice "mi van mal tutte quante". Ci interessa il personaggio che vive nel disordine e crea il disordine».
Uno spirito libero?
«La libertà per Don Giovanni è libertinaggio. Come avviene oggi quando vediamo azioni che impediscono la libertà di tutti. Imbrattare i quadri o buttare giù statue in nome di un’ideologia scambiata per libertà è violenza».
Cos’ è la libertà?
«Quando Don Giovanni dice viva le donne, viva il buon vino, viva il mangiare, è la distruzione dell’essenza nobile dell’uomo libero. L’opera di Mozart va vista come presa di coscienza dei difetti della società e dell’umanità».
Come commenta le polemiche su Anna Netrebko con il volto dipinto di nero per l’Aida all’Arena di Verona?
«Quando diressi Il ballo in maschera a Chicago non ho toccato il testo, come è avvenuto vergognosamente alla Scala, al Covent Garden, al Metropolitan, anche nella parte in cui il giudice bianco vuole condannare la maga Ulrica perché appartenente, uso parole testuali, "all’immondo sangue dei negri"».
Parole oggi indicibili.
«Ho spiegato che Verdi mette in bocca questa frase per sottolineare l’ignominia di quel pensiero. La storia non va cambiata, non vanno imbiancati i sepolcri. Dobbiamo tramandare ai giovani esattamente la realtà, anche crudele, del passato per correggerla».
Il capolavoro di Mozart è un dramma buffo. La politica di questi tempi a quali di queste due definizioni è più vicina?
«Viviamo una fase drammatica. Speriamo si rimanga nel dramma e non si cada nel tragico. La ricerca della bellezza e l’armonia della musica allora suonano come ideali lontani. Sembra un controsenso il cercare la bellezza e la perfezione quanto tu sai che hai davanti e intorno persone che soffrono. Ma noi dobbiamo aggrapparci alla bellezza delle arti. Io, l’11 settembre del 2001, ero a Torino e mi interrogai a lungo se era il caso di dirigere l’orchestra a poche ore da quella tragedia. Andammo avanti, il teatro era gremito. La cultura non era intrattenimento ma un cibo spirituale in un momento in cui mondo stava crollando. Ed è così anche adesso».
Quale è lo stato di salute della cultura italiana?
«Ci sono uomini di grande cultura che si battono per la cultura. La scuola però è tremendamente in discesa. Non è formativa, non è al passo dei tempi. Quando leggo i libri dei miei nipoti in prima media non li capisco. Sono infarciti di ideologia politica a seconda dell’insegnante o della scuola».
Cosa pensa del ministero dell’Istruzione ribattezzato della scuola e del merito?
«Ho avuto la fortuna di avere in Italia grandi insegnanti. Tutto quello che ho fatto lo devo al mio Paese e ai miei insegnanti».
Lei però è un’eccellenza. Che cosa è il merito?
«Tutti dobbiamo partire dalla stessa linea, il contrario sarebbe un’ingiustizia. Poi chi è dotato dalla sua natura raggiunge traguardi più elevati. Questo è il merito. Ma il merito non può essere imposto per legge dall’alto».
Il titolo completo dell’opera che inaugurerà la stagione del Regio è Don Giovanni e il convitato di pietra. Chi è il convitato di pietra della cultura italiana?
«La musica. Il problema è gravissimo: dobbiamo vergognarci. Abbiamo la più grande e lunga storia della musica del mondo. Monteverdi, Palestrina hanno influenzato tutto e noi calpestiamo questa tradizione unica».
Però i giovani vanno ai rave e ascoltano techno.
«Un problema di educazione. In Corea o in Giappone le sale sono piene di giovani. Hanno scoperto da decenni la bellezza della nostra musica. In Italia è ignorata dalle scuole o viene insegnata male. Tutti dovrebbero esserne educati fin dalla materna. Vorrei sapere quanti tra senatori e deputati conoscono e si dedicano alla musica e alla lirica al di fuori delle inaugurazioni con lo smoking».
Troppi stranieri dirigono musei e teatri in Italia?
«A parte i miei 20 anni alla Scala e i 12 a Firenze, la mia carriera si è svolta tutta all’estero. Non posso e non devo quindi criticare le nomine degli stranieri. A Capodimonte, ad esempio, Sylvain Bellenger ha fatto un lavoro straordinario. Ma non mi capacito che ci sia stata questa invasione nei teatri lirici».
Non ci sono le condizioni perché lei torni in Italia?
«C’è ancora una forma di servilismo antico, insito nell’italianità, di piegare il ginocchio allo straniero. Ci sono teatri in città, culle della cultura mondiale, dove il sovrintendente ignora la storia plurisecolare del teatro, del tessuto sociale e del popolo».
I partiti di destra sono stati meno attenti alla cultura. Con un governo di destra sarà ancora più bistrattata?
«Ci sono uomini di cultura di destra validi. La sinistra ha avuto e avrà intellettuali ma in questi anni non ha fatto molto per la cultura diffusa. Tutte le mie critiche sono figlie di un periodo di conduzione da parte della sinistra. Non conosco il nuovo ministro Sangiuliano. Starò a vedere. Spero che sappia ascoltare i veri uomini di cultura non per ricevere ordini ma per raccogliere consigli».
Con la destra c’è il rischio di un ritorno al fascismo?
«Non bisogna confondere destra con fascismo. Tutti siamo antifascisti, tutti siamo contro le dittature. L’arte non può sorgere o svilupparsi sotto una dittatura anche se dalle dittature sono nati germogli meravigliosi come contrasto. Lasciamoli lavorare. Noto in questi giorni un’eccessiva violenza. Antitesi e tesi sono allo stesso modo importanti a patto che si arrivi alla sintesi. Se fanno a cazzotti, ne soffre il popolo».
Troppi musei gratis come dice il nuovo ministro?
«I musei dovrebbero essere tutti gratis per ragazzi e studenti. Non si può negare la bellezza del Museo Egizio o degli Uffizi a chi non ha mezzi economici. Così come per la musica. La Cina sta aprendo decine di teatri e di conservatori. Non lo fa solo per amore della musica europea ma perché ha capito che se vuole entrare nelle maglie di altri Paesi deve conoscerne e praticarne la cultura».
Lei si era battuto perché l’Inno di Mameli, che chiude le trasmissioni di RadioRai, fosse suonato da un’orchestra italiana e non dai Berliner. L’Italia deve essere più nazionalista con la cultura?
«Nazionalismo è una parola pericolosa se usata male. Dobbiamo puntare di più sulla nostra identità. Noi abbiamo bellezze, valori e genialità in tutti i settori. Per questo motivo dall’estero ci attaccano. Sono gelosi e invidiosi».
Cosa vuol dire essere un patriota?
«Amare il proprio paese e credere nelle sue grandi qualità. Difenderlo sempre a tutti i costi. Quando sto in Italia sono molto critico, ma quando sono fuori guai a chi dice una mezza parola contro».
La differenza tra patriottismo e nazionalismo?
«Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il nazionalismo e con il fascismo. Patria è una bella e importante parola perché deriva da pater. Bisogna vedere come la si usa. C’è stato un periodo che a parlare di patria e bandiera si veniva tacciati di fascismo. E nessuno suonava più l’Inno di Mameli. Poi con Ciampi l’inno ha ritrovato la sua giusta collocazione».
L’invasione della Russia in Ucraina continua. Si può trovare la pace?
«Non lo so. Molti mesi fa mia moglie è andata al confine con l’Ucraina e abbiamo portato 64 artisti di Kiev in Italia che hanno poi cantato con me nel viaggio dell’amicizia a Lourdes e a Loreto. Il nostro cuore è per gli ucraini. Consideriamo inoltre che l’Ucraina è terra di grande cultura che nasce prima della Russia. Sono nazioni simili ma diverse. Tutto il mondo sta pagando il conto della guerra».
Cosa pensa di chi si è rifiutato di suonare con i russi?
«Un tragico errore. A Salisburgo abbiamo suonato ?ajkovskij e ho chiuso la stagione con Prokofiev a Chicago. Due giganti che ora sono proibiti a Kiev. Capisco lo stato d’animo ma cancellare la cultura è una forma di dittatura ideologica come avvenne con Mendelssohn, bandito durante il nazismo e il fascismo perché ebreo. Bisogna essere cauti nei giudizi quando si gode ancora della libertà e non essere severi con chi invece è già con le catene ai polsi».