Corriere della Sera, 10 novembre 2022
Giancarlo Ferron, nemico del cacciatori di frodo
Quando nel 2021 il guardacaccia Giancarlo Ferron è andato in pensione, dopo 34 anni di onorevole servizio nella Polizia provinciale di Vicenza, bracconieri e cacciatori delle Prealpi venete, non meno che avvelenatori dell’ambiente, predatori di funghi e tartufi, raccoglitori abusivi di stelle alpine e raponzoli di roccia, si sono tuffati nel Prosecco: il Guardiano dell’Eden era stato finalmente abbattuto, sia pure per interposto Inps. I continui trasferimenti di sede, nella logica del «promoveatur ut amoveatur», testimoniavano la sua pericolosità per le succitate categorie: prima la Pedemontana; poi le Valli del Pasubio, Recoaro e Crespadoro; a seguire la Val Posina e l’Altopiano di Asiago; quindi il monte Grappa; infine di nuovo il massiccio del Pasubio. Tutti territori che ha sorvegliato, forse troppo, con lo zelo di un alpino schierato lungo la Strada delle 52 gallerie durante la Grande Guerra. Unica differenza: la Beretta 9x21 al posto del fucile 91. «Ma avevo in dotazione anche un binocolo e il “lungo”, un cannocchiale da 60 ingrandimenti».
Bel tipo, questo Ferron, sposato con Loredana, due figlie (Giulia, biologa, e Claudia, psicoterapeuta), ora diventato scrittore e fotografo. Appena smessa la divisa, ha rinunciato per sempre al cellulare: «Non lo voglio, mi distrae dai rapporti umani». Naturalista e naturista, confessa di addentrarsi talvolta nelle foreste completamente nudo e a piedi scalzi per immedesimarsi nella condizione degli animali, «ma solo in zone impervie irraggiungibili dagli escursionisti». Ornitologo, botanico, esperto di orsi e lupi, dice di aver assistito al suicidio dei caprioli, che si gettano nei dirupi per il terrore, inseguiti dalle mute di segugi aizzati dai cacciatori. Di più: Ho visto gli animali piangere, così s’intitola uno dei suoi bestseller editi dalla Biblioteca dell’Immagine. «Dovrebbe osservare gli occhi sbarrati di cervi, camosci e altri ungulati che finiscono presi al laccio, il loro sguardo velato e supplichevole».
Ma davvero gli animali si suicidano?
«È avvenuto sotto il mio sguardo, a Cogollo del Cengio. I cacciatori stanno comodi alla posta, i cani inseguono. Appena la prima muta di segugi è sfinita, ne viene liberata una seconda, carica di energia. Ma il capriolo non può correre a lungo, perché non suda, non dissipa il calore, si stanca in fretta. Ha solo lo scatto iniziale, grazie agli arti posteriori più lunghi. Quando è esausto e si vede perduto, preferisce gettarsi nei burroni. Alcuni caprioli mi sono morti di crepacuore tra le braccia dopo che li avevo liberati dalle reti. Miopatia, in gergo tecnico».
A che età s’innamorò della natura?
«A 7 anni. Sono cresciuto a Zovencedo, sui Colli Berici, dove la passione venatoria si succhia con il latte materno. Seguivo i cacciatori, portavo la mia fionda, ma non ho mai ucciso. Mi facevo dare gli uccelli da richiamo scartati: ne studiavo il piumaggio e curavo quelli feriti. A 14 anni ho spalancato la voliera e li ho lasciati liberi».
Come divenne guardacaccia?
«Finite le medie, i professori dissero ai miei: “È bravo, fatelo studiare”. Loro avrebbero voluto vendere un pezzo di terra per mandarmi alle superiori. Rifiutai: operai emigrati, l’avevano acquistato con i risparmi racimolati in Svizzera. Dai 14 ai 24 anni feci il loro stesso mestiere in una carpenteria. Presi la maturità da privatista, dopo aver vinto il concorso della Provincia, 16 posti in tutto».
Ricorda il suo primo giorno in divisa?
«Come fosse ieri. Mi trovai all’alba con un collega di Malo sulle cime di Recoaro. In zona protetta i bracconieri davano la caccia al gallo forcello, che ad agosto era stato censito in appena 10 esemplari».
Perché ucciderli?
«È un trofeo ambitissimo, insieme al gallo cedrone, alla pernice bianca e al francolino di monte, tutte specie in declino. Lo facevano impagliare dai tassidermisti. O se lo mangiavano in tecia, in teglia. Io non l’ho mai assaggiato, ovvio».
Più che guardacaccia, controcaccia.
«Si sbaglia. Non ho niente contro la caccia, se esercitata nel rispetto delle regole. Solo che la trovo anacronistica. Abbiamo ammazzato tutto, che senso ha perseguitare i pochi animali rimasti? Ma la passione è un sentimento irrefrenabile, che appiattisce verso il basso le categorie sociali, dall’avvocato al muratore».
Dimentica che è anche un’industria.
«L’articolo 1 della legge 157, varata 30 anni fa, recita: “La fauna selvatica appartiene al patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”. Indisponibile. La caccia è l’eccezione».
Per questo la trasferivano spesso?
«Avevo la fama dell’inflessibile. Ad Asiago pestai i piedi a un pezzo grosso. In un campo teneva decine di camion in disuso, che spandevano nel terreno olio del motore e acido solforico delle batterie. Scattò la denuncia penale. Quella volta udii le urla del mio comandante ancora prima di parcheggiare la Panda 4x4. Mi ritrovai catapultato sul Grappa».
Usava solo l’auto di servizio?
«Più che altro le gambe. Percorrevo a piedi fino a 30 chilometri al giorno. Il vero dramma di queste rimozioni era che perdevo i contatti con i confidenti».
Che genere di confidenti?
«Malgari, pastori, abitanti delle contrade, cacciatori onesti, o solo invidiosi, che mi segnalavano movimenti sospetti. Servono anni per crearsi una rete così».
Chi sono i bracconieri?
«Delinquenti abituali, disturbati mentali che uccidono per dimostrare la loro virilità. Sono muniti di fototrappole e fucili con visori notturni agli infrarossi e puntatori laser, in grado di colpire un cervo a 400 metri di distanza».
Ne ha fatti condannare molti?
«Una quarantina l’anno. Ma ho perseguito anche chi fra marzo e aprile, nelle notti di pioggia, cattura le rane per mangiarsele. Gli anfibi, inclusi rospi, tritoni e salamandre, salgono verso le pozze degli alpeggi a deporre le uova. Uno spettacolo impressionante. Bastano una pila e le mani per raccogliere le rane».
Sulle salamandre circolano leggende.
«Mia suocera era sicura che piovessero dal cielo. Durante un temporale sentì una botta sull’ombrello e ne vide una per terra. Le salamandre emettono dalla bocca una sostanza urticante, schiumosa, per difendersi dai predatori. Di qui la credenza popolare che gli angeli le userebbero per lavare i piatti. Mi ricorda l’assurda storia dei serpenti che farebbero rigurgitare i neonati nelle culle per suggere il latte vomitato. Impossibile, visto che non possono lappare. Però è noto che, essendo ectotermi, cercano riparo dal freddo. Mia nonna si accorse al mattino di aver dormito con un colubro di Esculapio fra le coltri. E un mio collega trovò in una casa diroccata di Asiago una vera fossa dei serpenti, in cui si erano rifugiati decine di rettili di varie specie».
Dietro la caccia c’è un mercato nero?
«Altroché, fiorente. Dopo mesi di appostamenti, spesso di sera fuori dall’orario di lavoro, incastrai un macellaio della zona di Thiene che teneva nelle celle frigorifere 3.000 beccacce, che sono sì cacciabili, ma non commerciabili».
Magari voleva mangiarsele lui.
«Appunto, questa gente va scoperta in flagranza di reato, mentre vende le prede. Ma è più furba degli spacciatori di droga, si dà appuntamento nelle piazzole di sosta delle autostrade, tiene nel bagagliaio solo i capi contati. Denunciai un rappresentante di commercio che a Schio consegnava casa per casa e ristorante per ristorante non solo beccacce ma anche lucherini, fringuelli, peppole, frosoni, verdoni, pettirossi, tutti uccelli protetti, che non si possono uccidere».
Che senso ha rischiare un processo?
«Servono per cucinare la famosa polenta e osei. È il gusto del proibito».
Ha visto animali sparire per sempre?
«Sì. Per esempio, la coturnice delle Alpi, sterminata da una caccia forsennata fra gli anni Sessanta e Settanta».
Ne ha visti arrivare di nuovi?
«Il capriolo era scomparso nel secondo dopoguerra. Lo spopolamento della montagna e il conseguente imboschimento ne hanno favorito il ritorno. Poi si sono ripresentati il cervo e il camoscio. Sono gli effetti di un calo della pressione venatoria. Consideri che, in tempi di fame, questi animali erano masse di proteine che camminavano. E poi i cinghiali, immessi illegalmente dai cacciatori e trasformatisi in flagello. Si sono ibridati con i maiali, divenendo più prolifici».
Infine il lupo.
«Fino al 2012 non c’era. È giunto sull’arco alpino e prealpino in modo spontaneo. Bilancia la fauna selvatica».
Ma spaventa allevatori e montanari.
«Assurdo. Non è mai stato un pericolo, prova ne sia che nel Nord Italia ci sono stati in un anno 110 attacchi di vacche contro le persone e zero di lupi».
Come se ne esce?
«Duccio Berzi, esperto di conservazione della fauna, lo ha dimostrato nella zona del Grappa. Ha catturato quattro lupi e gli ha messo il radiocollare. Quando uno di essi si è avvicinato a una mandria al pascolo, è stato colpito con un proiettile di gomma e si è allontanato per sempre di parecchi chilometri».
Intanto la montagna si spopola.
«Non è un male. Aumenta la vegetazione? Meglio. Un metro quadrato di bosco equivale a 27 metri quadrati di foglie. Rallentano la pioggia e impediscono le alluvioni. O preferiamo gli alpigiani che nei pascoli hanno sostituito le pozze d’acqua con le vasche da bagno usate?».
Le montagne scivolano a valle.
«C’entra il cambiamento climatico, quello che induce le chiocciole ad accoppiarsi da aprile a giugno, anziché in agosto. Comunque basta prendere esempio dai vecchi. A Recoaro è stata costruita una casa davanti alla frana del Rotolon. I nostri nonni non l’avevano mai fatto».