il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2022
Poveri precari
La caduta dovuta al Covid è stata violenta, ma anche ora che il mercato del lavoro italiano si è rialzato, la camminata resta zoppicante, incerta. In due parole: precaria e povera. I posti di lavoro creati sono deboli, come gli stipendi. Il rapporto annuale Inapp presentato ieri fotografa quanto è successo nel 2021, racconta di come la stragrande maggioranza dei contratti attivati lo scorso anno sia a tempo determinato o comunque part time. Ancor più che in passato, la ripartenza si sta basando su quelli che definiremmo “lavoretti” o, servendoci di un termine più tecnico, impieghi “non standard”. E se i salari non crescono, il motivo non è solo nella bassa produttività, c’è anche una tendenza crescente delle imprese a non applicare i contratti collettivi.
Veniamo ai numeri. Le nuove assunzioni firmate nel corso del 2021 sono state circa 11,2 milioni: di queste, solo il 17% – circa 1,9 milioni – ha prodotto contratti subordinati, a tempo pieno e indeterminato. Tutte le altre, e parliamo di una cifra che supera abbondantemente i 9 milioni, si riferiscono a rapporti precari, da poche ore, atipici, intermittenti. Di quelli che garantiscono solo stipendi bassi e a singhiozzo, che non permettono di programmare la propria vita o, più semplicemente, di ottenere un mutuo.
Una carrellata di dati aiuterà a misurare meglio la distanza tra il nostro Paese e il resto dell’Ue e dell’Ocse: ad esempio l’11,3% dei lavoratori italiani ha un “part time involontario”, cioè è impiegato solo per poche ore alla settimana (o per alcuni periodi dell’anno) ma desidererebbe un lavoro a tempo pieno; la media Ocse è del 3,2%.
E ancora: sette nuovi contratti su dieci sono a tempo determinato. I sostenitori della flessibilità potrebbero dire che questo tipo di rapporti precari rappresenta comunque la porta di ingresso nel mercato del lavoro verso una migliore condizione occupazionale. Purtroppo, però, le analisi dell’Inapp mostrano che questo è vero solo in una minoranza di casi: nel triennio tra il 2018 e il 2021, solo il 45% di chi è partito con un contratto “non standard” è poi riuscito a trovare un impiego “standard”; un altro 27% è rimasto intrappolato nella morsa dei rapporti “atipici”, il 14% risulta disoccupato e in cerca di un nuovo posto e un ulteriore 14% è sprofondato nell’inattività. Insomma, la precarietà sarà anche un trampolino, ma in oltre metà dei casi la piscina è vuota. L’economia dei lavoretti diventa un fenomeno esistenziale più che un passaggio verso la svolta professionale: “Il tema del crescente aumento dei contratti non standard – ha spiegato il presidente Inapp Sebastiano Fadda – rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid”.
Lavorare meno di quanto si vorrebbe vuol dire anche guadagnare meno. La quota di occupati italiani a rischio povertà è al 10,8% contro l’8,8% dell’Unione europea. A dichiarare meno di 10 mila euro annui è l’8,7% dei lavoratori, ma comunque tre quarti degli occupati prendono meno di 30 mila euro. L’Italia rappresenta un’anomalia nella dinamica dei salari: questi sono cresciuti in tutti i Paesi Ocse negli ultimi trent’anni, mentre da noi sono calati del 2,9%. In genere la spiegazione che viene data è il basso livello di produttività del lavoro nel nostro Paese. In effetti, anche a non voler ricordare che senza crescita n su questo – a partire dagli anni Novanta – l’Italia ha accumulato grande ritardo rispetto al resto d’Europa, ma la produttività è comunque cresciuta – seppur lentamente – mentre i salari non hanno seguito lo stesso andamento. Non hanno in pratica funzionato “i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro”, dice il rapporto.
Quindi qual è la causa di questa stagnazione dei salari? In Italia non esiste un salario minimo legale, né il governo Meloni ha intenzione di introdurlo, avendo solo annunciato l’estensione degli attuali contratti collettivi. Sembra però che il meccanismo che oggi determina gli stipendi di chi lavora – appunto la contrattazione collettiva – non sempre sia garanzia di buoni risultati. Diversi osservatori, specialmente in ambito sindacale, sostengono che basti ad assicurare di fatto salari minimi a un’ampia maggioranza di lavoratori. Un mito che però potrebbe crollare se si consoliderà la tendenza degli ultimi dieci anni. Dal 2011 a oggi, infatti, si è ridotto del 10% il numero di aziende che applica solo il contratto collettivo nazionale, mentre quelle che non applicano alcun contratto sono nello stesso periodo passate dal 9% al 20%. Solo il 4% applica sia un contratto nazionale sia un contratto aziendale (quest’ultimo è quello che in teoria dovrebbe permettere di aumentare le retribuzioni agganciandole ai risultati). La contrattazione di secondo livello, in realtà, è presente in genere nelle aziende medio-grandi del Centro-Nord, molto meno nelle piccole realtà del Mezzogiorno.
Un altro mantra molto caro a una parte dei nostri commentatori economici è quello per cui le aziende italiane non riuscirebbero a trovare lavoratori abbastanza formati per le loro attività. Anche qui i dati Inapp mostrano che la questione è quantomeno più complessa. Nel 2021, infatti, solo il 22,8% delle imprese segnala la necessità di adeguare le competenze delle proprie figure professionali. Nel triennio 2018-2021 solo il 10,8% delle aziende ha apportato innovazioni in tema di competitività e appena l’8,6% ha investito sulla sostenibilità.
Nella galassia degli impieghi non standard, sempre i lavoretti, continua ad avere uno spazio rilevante il lavoro su piattaforma. Gli addetti su app – buona parte composta dai rider delle consegne di cibo a domicilio – continuano a districarsi in una ragnatela di forme contrattuali atipiche. Solo l’11,5% ha un rapporto da dipendente, tutti gli altri sono collaboratori, autonomi occasionali, Partite Iva o, nel 31% dei casi, non hanno alcun tipo di contratto scritto. È sempre meno una nicchia quella del “nuovo” lavoro, che con la sua quasi totale assenza di tutele contribuisce sempre più ad allargare le maglie della precarietà nel nostro Paese.