Corriere della Sera, 8 novembre 2022
Gli 80 anno di Sandro Mazzola
Di Valentino in Valentino. E in mezzo lui. Un filo granata che si tinge anche (soprattutto) di nerazzurro. Una storia infinita lunga più degli 80 anni di Sandro Mazzola. Dieci anni fa per i 70 Gianni Rivera gli scrisse: «Per una volta sei arrivato prima tu». Sandro che continua a seguire il calcio anche se gli manca entrare nello spogliatoio di San Siro, ma resta nella sua casa in Brianza. Adesso guarda crescere il nipotino Valentino. Senza farsi vedere, nascosto dietro un albero. A prendersela con gli allenatori dei ragazzi che si credono tutti Mourinho. O Helenio Herrera che è lo stesso. Sandro che dopo gli anni da opinionista in tv, l’unico a commentare due Mondiali vinti nell’82 su TeleMontecarlo e nel 2006 sulla Rai, ha lasciato da non molto anche gli studi dei programmi sportivi. E fa vita da pensionato. Ma con occhio, orecchie e cuore sempre per la sua Inter. E il suo baffo iconico ci ricorda ancora un’Italia da favola, quella dei Riva e dei Rivera, dei Gimondi e dei Motta.
I pomeriggi e le notti milanesi conoscono il suo nome. L’erba degli stadi del mondo ha le sue orme. Era già leggenda prima ancora di dimostrarlo. Da uno come lui ci si aspettava tanto. È arrivato tutto. Sandro e la sua Inter stampata nell’anima. Da quando giocava all’oratorio e in porta c’era Adriano Celentano e la mezz’ala si chiamava Tony Renis. Tre artisti dentro lo spazio angusto di un cortile di asfalto. Una musica che va avanti da una vita. Sandro e la sua piccola mano dentro la manona di Benito Lorenzi, detto Veleno. Un secondo papà, il primo maestro. L’odore di canfora degli spogliatoi. Il pallone di cuoio con le cuciture spalmate di grasso. L’erba sotto i tacchetti. Il sudore e la terra sulle guance. Mazzola che doveva sempre dimostrare qualcosa.
La prima volta in Serie A e fu subito gol. Solo che dall’altra parte ne piovvero nove. L’Inter con i ragazzini in campo per protesta e dall’altra parte Omar Sivori a maramaldeggiare. La prima delle ingiustizie che venivano dall’altra Torino, quella che gli stava sullo stomaco. Mazzola e la notte al Prater di Vienna. Le camisetas bianche del Real come fantasmi da esorcizzare. Sandro che fa due gol e Ferenc Puskas che si complimenta a fine partita: «Sei degno di tuo padre». Non è più il figlio di. È solo Sandro, il Mazzola 2.0, l’ottavo nome di una filastrocca di campioni che cominciava con sartiburgnichfacchetti e finiva con suarezcorso. Mazzola e ancora una Coppa dei Campioni con una maglia bianca da urlo e le sfide per l’Intercontinentale. Quando si giocava anche la «bella» e in Argentina imparavi la parola «ematoma». Sandro che non era solo Inter ma anche azzurro come la canzone del suo amico Adriano. I Mondiali della Corea e quelli del 4-3 con la Germania. Lui a dividere i critici. Brera di qua, Palumbo di là. La rivalità con Rivera e l’amicizia con Facchetti. Era tempo di giganti. I mazzoliani che si stropicciavano gli occhi per un suo guizzo, per quel suo modo di scarabocchiare gli schemi. Con Mazzola la velocità della luce non era più un concetto astratto. Quei dribbling infiniti a Budapest contro il Vasas impressi nella memoria anche di chi la partita l’aveva ascoltata solo per radio. La Grande Inter fiorì e morì con lui, ma come una farfalla dalle ali vistose e colorate ci ricordiamo solo di quando volava.
Poi la seconda vita da dirigente. Questa volta con un sigaro in più e dietro la scrivania non c’era più Helenio Herrera. Ma un altro Moratti sì. E con lui l’idea di riprovarci a disegnare un sogno. Mazzola che porta Ronaldo e scova Pirlo, anche se gli avevano detto che quello bravo del Brescia era un altro. E poi direttore sportivo anche per Genoa e Torino. Sempre capace di spiazzarti anche con le parole.
Auguri Sandro, mille di questi dribbling.