il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2022
Woody racconta Allen
Anticipiamo stralci di “Woody Allen su Woody Allen”, una raccolta di interviste condotte dal critico Stig Björkman, negli anni 80-90, in libreria con Cue Press.
Stig Björkman: Il dittatore dello Stato libero di Bananas, il tuo secondo film, che è la satira di una rivoluzione in un immaginario Paese dell’America Latina, fu realizzato nel 1971, in un periodo in cui questo tipo di insurrezioni avveniva realmente. Era anche il periodo della guerra del Vietnam. Quali erano le tue idee politiche a quel tempo? Ti consideri politicizzato?
Woody Allen: No, non credo di esserlo. Sono fondamentalmente – al 99% – un democratico progressista. E più o meno lo ero anche allora, perché ero contrario alla guerra, come chiunque altro conoscessi. Fondamentalmente non sono molto politicizzato. Ho fatto delle campagne per certi politici, come talvolta fanno gli uomini di spettacolo.
SB: Chi hai sostenuto in questo modo?
WA: A suo tempo, quand’ero più giovane, sostenni Adlai Stevenson, George McGovern ed Eugene McCarthy. Tutta gente che ha perso. Ho sostenuto anche la candidatura presidenziale di Lyndon Johnson, poi Jimmy Carter e Michael Dukakis, e adesso mi sono unito ai sostenitori di Clinton. Sono fondamentalmente un democratico progressista.
SB: Te l’ho chiesto anche perché, in film successivi come Io e Annie e Manhattan, fai delle osservazioni ironiche sugli intellettuali di sinistra, un gruppo di cui presumo anche tu ritenga di far parte.
WA: Sì, e poi è un gruppo che osservo con attenzione…
SB: Penso che la velocità sia una delle caratteristiche distintive dei tuoi film…
WA: Ritengo che ciò abbia a che fare con il ritmo biologico naturale del regista. Senza che io cerchi di accorciare i miei film né di rispettare in essi una particolare durata, mi pare di sentire istintivamente, fisicamente, quale sia la durata giusta… Poi penso che sia importante come si inizia un film. Questo proviene forse dalla mia formazione cabarettistica. È importante che l’inizio e la fine del film siano particolari, che abbiano qualcosa di teatrale, o comunque qualcosa che catturi immediatamente il pubblico. Perciò credo che tutti i miei film inizino in maniera insolita. Per me è importante la prima immagine che appare sullo schermo. E questo non ha nulla a che fare con il ritmo. Potrebbe essere anche un inizio molto lento. Ma si sente subito se il regista sa coinvolgerti nella sua storia o nel suo universo personale.
SB: Alla fine del Dittatore dello Stato libero di Bananas, c’è un’attrice nera che fa la parte di J. Edgar Hoover. È una delle pochissime parti nei tuoi film interpretate da attori neri. C’è, per esempio, il sergente nero in Amore e guerra, un personaggio di colore ne Il dormiglione e la cameriera nera ne La rosa purpurea del Cairo. Ma, a parte questi, non ci sono quasi per niente attori di colore nei tuoi film. Come mai?
WA: Non conosco l’esperienza dei neri abbastanza bene da poterne scrivere in maniera autentica. Di fatto, la maggior parte dei miei personaggi proviene da un ambito limitato. Sono perlopiù newyorchesi di ceto alto, colti, nevrotici. Questo è praticamente l’unico tipo di persone di cui parlo, perché è praticamente l’unico tipo di persone che conosco. Non ne so abbastanza di esperienze di altro tipo. Non ho mai scritto nulla, per esempio, su una famiglia irlandese o italiana, perché non ne so abbastanza.
SB: Ho notato questo particolare anche perché nei film hollywoodiani dell’ultimo decennio è stato dato maggior spazio agli attori e ai personaggi di colore… Spesso il nero fa la classica parte dell’“amico”. È quasi un luogo comune.
WA: Sì, oggi come oggi si tende effettivamente a usare più attori neri nel cinema. Ma, per esempio, quando feci Hannah e le sue sorelle, scrissi di un ambiente che conoscevo piuttosto bene. E misi una cameriera di colore perché in quelle famiglie il 90% delle volte si trova una cameriera di colore. Ho ricevuto molte lettere polemiche da parte di neri che dicevano: “Non usi mai attori neri, e quando ne usi uno gli fai fare un lavoro umile”. Ma io non penso a queste cose quando creo un personaggio. Nella mia vita politica – qualunque essa sia – sono sempre stato molto favorevole a tutti i candidati che vogliono ottenere condizioni di vita più favorevoli per i neri. Ho marciato con Martin Luther King. Ma quando scrivo non credo nelle pari opportunità né nella lotta contro i pregiudizi. Nell’arte non puoi farlo. Perciò, dato che cercavo di ottenere una rappresentazione accurata e mi sembrava che quelle famiglie dell’Upper West Side avessero quasi sempre una domestica nera, nel film ne inserii una. Ma sono stato criticato per questo. Cerco soltanto di rappresentare la realtà nel modo in cui ne faccio esperienza, nella mia autenticità. Allo stesso modo, se dovessi rappresentare una famiglia ebrea tipo quella in cui sono cresciuto, lo farei in maniera accurata, mettendoci cose lusinghiere e non. Ho ricevuto anche un sacco di critiche da gruppi di ebrei che ritengono che io sia stato molto duro, molto critico, o che li abbia denigrati. Insomma, c’è sempre molta suscettibilità in questioni del genere. Ma io mi sono sempre lasciato guidare soltanto dall’autenticità della scena.