il Giornale, 8 novembre 2022
Vonnegut ha raccontato tutto quello che non vorremmo sapere sulla guerra
L’11 novembre si celebrano i cent’anni dalla nascita di Kurt Vonnegut Jr, nato a Indianapolis e morto a New York nel 2007. La ricorrenza non sembra eccitare nessuno. Per fortuna, l’editore Bompiani sta pubblicando l’opera omnia, a cura di Vincenzo Mantovani, traduttore di Vonnegut da decenni. In questi giorni è anche uscito Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini (Bompiani, pagg. 192, euro 22) in una bella versione graphic novel di Ryan North e Albert Monteys. Vonnegut ha raccontato tutto quello che non vorremmo sapere sulla guerra, e il centenario cade in un momento di drammatica crisi internazionale. L’operazione speciale della Russia in Ucraina, al di là dell’eufemismo, è una invasione. La Cina si prepara ad allungare le mani su Taiwan. Nei Balcani, i rapporti tra Kosovo e Serbia sono tesi e si teme un nuovo scontro. Il pacifismo italiano è in confusione. Si è diviso in piazze diverse, che si sono dichiarate guerra senza troppi giri di parole. Dalla pattumiera dei social network, ma anche dagli altri media, si levano le voci di improvvisati esperti di geopolitica. È un mistero dove trovino il tempo di informarsi, visto che trascorrono la giornata a «spiegare» teorie apodittiche su Twitter. Così si assiste alla parodia di un dibattito dove la reciproca tolleranza è bandita. Chi riconosce qualche ragione a Putin è un guerrafondaio e un venduto al dittatore. Chi sostiene la necessità di appoggiare l’Ucraina non solo a parole è un guerrafondaio e un venduto alla Nato. Fosse così semplice...
Kurt Vonnegut Jr era di origine tedesca e credeva nel sogno americano. Si arruola volontario nella Seconda guerra mondiale e finisce dove la partita è ancora aperta: le Ardenne, in Europa. Arriva appena in tempo per «godersi» la controffensiva nazista, l’ultimo disperato tentativo di rovesciare le sorti del conflitto. Il soldato Kurt viene fatto prigioniero e inviato a Dresda. Quando esce dal vagone, e si incammina incolonnato per le vie del centro, rimane a bocca aperta. Per un ragazzo che viene dall’Indiana, la «Firenze tedesca sull’Elba» è uno choc culturale: non ha mai visto niente di così bello. Il prigioniero Kurt viene assegnato alla pulizia di un’industria alimentare. Pancia piena garantita. Insieme con altri soldati americani, dorme in un ex Mattatoio, il numero 5. Nel febbraio del 1945, la guerra volge al termine. Hitler è stato sconfitto. La Germania subisce bombardamenti a tappeto. Dresda è sempre stata risparmiata. I russi sono vicini, la città è indifesa ma prosegue nella sua vita, che conserva un pizzico di mondanità. I cittadini sono convinti che Dresda goda di uno statuto speciale non dichiarato: chi bombarderebbe un simile gioiello, che ha poco o nessun valore strategico? Gli alleati invece arrivano in tre ondate, tra il 13 e il 15 febbraio, e scaricano tonnellate di ordigni incendiari. Non c’è accordo sul numero di vittime. Vonnegut scrive 250mila. Kurt si salva per caso. I prigionieri dormono nel Mattatoio seminterrato. Le guardie tedesche decidono di non aprire le porte e resistere là sotto. Per questo si salvano. Quando escono dal Mattatoio, racconta Vonnegut, Dresda non c’è più. È come essere sulla Luna. Ecco qua la guerra in tutta la sua ingiustizia e ambiguità: in qualche occasione, i buoni, gli Alleati, si sono comportati come i cattivi, i nazisti. Vonnegut ne prende nota, senza mettere in dubbio chi siano i buoni, del resto era partito volontario, come abbiamo già ricordato. Il massacro non ha un motivo che non sia quello di piegare la resistenza morale dei tedeschi. L’obiettivo vale la vita di 250mila civili? Beh, c’è stato, e c’è ancora, un dibattito in merito. C’è chi ricorda i cinque milioni di ragazzi morti per sconfiggere il nazismo: perché aggiungere altre vittime inutili, a guerra di fatto vinta ma ancora in corso per la volontà di Hitler di morire trascinando tutti quanti nel gorgo? Replicano altri: Dresda non accelerò la fine della guerra. Il bombardamento fu una esibizione di forza con la quale Winston Churchill mirava ad avvertire i sovietici: attenti, non avremo l’atomica come gli americani, ma possiamo distruggere intere città con le armi convenzionali. Come è complicato il mondo: le frasi a effetto non spiegano niente.
Vonnegut aveva una formazione scientifica ed era impiegato all’ufficio stampa della General Motors. Nel dopoguerra, inizia a pubblicare racconti e romanzi. La scrittura, per lui, non ha niente di romantico: è un lavoro. Per questo, non disdegna riviste patinate (Cosmopolitan, ad esempio) e neppure le riviste di fantascienza. Questa scelta causa la totale indifferenza della critica. Semplicemente Vonnegut è un non-scrittore nonostante il crescente successo dei suoi libri pubblicati direttamente in tascabile e venduti nelle edicole delle stazioni. Nel 1969 però cambia tutto. Vonnegut, dopo essere tornato a Dresda, nel 1967, trova finalmente le parole per raccontare quello che ha visto nella Seconda guerra mondiale. Scambiato per un manifesto pacifista, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini diventa un bestseller. Contrario alla guerra, ma volontario contro Hitler, pacifista ma pessimista, contro le ingiustizie ma anti-egualitario (leggere il racconto Harrison Bergeron per farsi un’idea), radical chic che di chic e anche di radical aveva poco, Vonnegut si è interrogato amaramente sul suo successo per tutta la vita: «L’atrocità di Dresda, tremendamente costosa e meticolosamente programmata, fu così insensata che solo una persona sull’intero pianeta ne ricavò qualche beneficio. Io sono quella persona. Ho scritto questo libro, che mi ha fatto guadagnare un mucchio di quattrini e che ha fondato la mia reputazione, quale che sia. In un modo o nell’altro, ho preso due o tre dollari per ogni persona uccisa. Bel mestiere il mio, eh?». Rovelli incomprensibili per gli opinionisti che non hanno fatto nulla, visto nulla, capito nulla.