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 2022  novembre 08 Martedì calendario

Luca Ricolfi vede la sinistra così com’è

Torna a merito di Luca Ricolfi il professarsi schierato sulla sinistra, ma dimostrarsi capace di riflessioni del tutto autonome, svelandosi abile nel chiarire ai troppi distratti i limiti, gli errori, le incapacità delle tante sinistre. Il più recente volume del sociologo serve a chiarire i fallimenti del Pd e i successi del centro-destra alle politiche, anche perché inserisce i fenomeni in una prospettiva storica.
Il fondamento della sua analisi si può sintetizzare nell’inversione fra destra e sinistra. Postulati, credenze, séguito della sinistra sono passati a destra: «Trasloco. Spostamento. O migrazione, se si preferisce: le idee di sinistra sono migrate» (lo si è qui notato nel Diritto&Rovescio di sabato scorso). Contribuisce a questa inversione (che induce a irridere i piddini come seguaci delle zone a traffico limitato, degli sdegnosi rinchiudersi a Capalbio, dell’accettare i privilegi che si attribuiscono i radical chic) una summa di anomalie italiane: «un’economia sommersa di grandi dimensioni, un peso elevatissimo del lavoro autonomo, un divario territoriale profondo e persistente, un consistente esercito di ipersfruttati e quasi-schiavi». Difendere deboli e poveri e sorreggere la libertà di pensiero è oggi prerogativa della destra.

La sinistra è andata convincendosi, e pretende di persuaderne gli elettori, di «rappresentare la parte migliore del Paese». La difesa degli immigrati è sfruttata come tutela degli umili: questi ultimi, però, non sono più i ceti operai. Si sviluppano così società diverse: delle garanzie (i lavoratori dipendenti sono tutelati dai sindacati, mentre i ceti bassi pesano per il 25,3%); del rischio (partite Iva, piccoli imprenditori, lavoratori a tempo determinato, mentre il 33,1% tocca ai meno abbienti); degli esclusi (lavoratori in nero, disoccupati, scoraggiati, in cui il 44,8% è dei più deboli).
A creare queste inversioni rispetto ai primi anni del secondo dopoguerra, quando la sinistra aveva o pretendeva il monopolio di quello che era definito proletariato, contribuirono tre mutamenti decisivi nel periodo 1963-’73: il centro-sinistra organico (sorse nel dicembre 1963), le lotte operaie e studentesche (nel 1968-’69), il compromesso storico (sviluppato fra il 1976 e il ’78). Successivamente, a variare il ceto elettorale della sinistra provvidero fenomeni quali la deindustrializzazione, la caduta del muro di Berlino e la globalizzazione.

Ricolfi ironizza sulle reazioni della sinistra di fronte ai cittadini. Se la gente si lamenta perché troppi alloggi popolari sono assegnati agli stranieri o occupati da immigrati irregolari, la sinistra agita pseudo statistiche. A chi si lagna perché le tasse sono troppo alte, si ribatte che «le tasse sono bellissime». Chi ritiene che non si possa accogliere tutti viene redarguito perché violerebbe un «dovere civico», pena l’essere disumano.
I mutamenti sono molteplici. Dominava l’essere libertini; si è giunti a essere censori, con il gravissimo e sempre più diffuso fenomeno del politicamente corretto. Si pratica il razzismo alla rovescia, elargendo favori alle minoranze definite oppresse e penalizzando le maggioranze dominanti: si dà spazio, con specifiche disposizioni, a neri e donne per colpire i bianchi considerati capitalisti, colonizzatori e oppressori. Si rimuove il passato, tramite la cultura della cancellazione, che è pura iconoclastia.
Con molta schiettezza Ricolfi riconosce come la cultura nel dopoguerra sia prevalente a sinistra, però ricorda quel che di solito si ignora o si finge di non sapere o si nega: la cultura nei primi vent’anni del Novecento era schierata a destra, con decadentismo, Gabriele d’Annunzio, futurismo. Il ventennio si segnalò per l’adesione massiccia al fascismo, rinnegata dopo il crollo del regime cui quasi tutti si adattavano.
Il Nostro bolla circostanze di solito trascurate o non comprese nel loro peso. Nega che tutto sia cultura e tutto sia arte, secondo prodotti, soprattutto del Sessantotto, che respingono valutazioni e meriti. Proprio la decadenza dei valori provoca il deterioramento culturale dei titoli di studio e l’impoverimento della lingua, che rendono «iniqua la competizione sociale e mettono a repentaglio la crescita economica e, più ancora, la qualità della vita civile».