La Stampa, 8 novembre 2022
Sta finendo l’era digitale del tutto gratis
Il 30 giugno scorso, Mark Zuckerberg, nel quartier generale di Meta, incontrando come fa ogni settimana i suoi 77 mila e 800 dipendenti (molti collegati in videoconferenza), era diverso dal solito. Invece di decantare le magnifiche sorti e progressive dell’economia digitale (e del metaverso), secondo il New York Times, il fondatore e amministratore delegato disse loro: «Stiamo attraversando il periodo più difficile della nostra storia, dobbiamo prepararci a fare di più con meno risorse e le vostre prestazioni saranno misurate diversamente, gli obiettivi sono diventati più difficili e so che molti di voi sceglieranno di andarsene, per me questa auto selezione va bene, realisticamente parlando, molti di voi non dovrebbero essere qui oggi…». Sono trascorsi quattro mesi e nonostante le chiacchiere sul metaverso il valore delle azioni di Meta (di cui fanno parte Facebook, Instagram e Whatsapp) ha continuato ad affondare; e il giorno dei licenziamenti di massa è arrivato anche a Menlo Park. Potrebbe essere già domani, dice il Wall Street Journal. La cosa era nell’aria, come abbiamo visto, e potrebbe essere stata addirittura accelerata da quello che nel frattempo è accaduto a Twitter: è stato acquistato da Elon Musk che appena arrivato, ha scoperto che la società perdeva quattro milioni di dollari al giorno, e ha mandato a casa la metà dei dipendenti, tremila e settecentocinquanta. Insomma, se lo fa l’uomo più ricco del mondo, “perché non io?”, deve aver pensato Mark Zuckerberg il cui patrimonio personale in un anno ha perso 100 miliardi di dollari.I due eventi sono separati ma li tiene assieme la crisi dei social network e più in generale la crisi di un sistema su cui si è poggiata in questi anni l’economia digitale: quello del tutto gratis. Era il 2010 quando l’allora direttore di Wired Chris Anderson, che era assurto a guru della Silicon Valley per aver definito “la teoria della coda lunga”, uscì con una nuova teoria e un nuovo libro: “Gratis!” era il titolo, e anche il destino di molti beni e servizi che avremmo comprato online, secondo Anderson. In effetti prima Internet e poi il web erano nati sul concetto di gratuità: erano gratis i siti, gratis i servizi email più popolari, gratis il motore di ricerca che tutto ti faceva trovare, gratis l’enciclopedia collettiva dove trovare le risposte a quasi ogni domanda. Oltre a questo per un certo periodo online sono stati gratis i libri, i film e le canzoni, per colpa di siti pirata che consentivano di condividere facilmente i file; e i giornali, che invece hanno scelto la gratuità volontariamente, in cerca di un modello che funzionasse. Interi settori industriali si sono dovuti reinventare con il digitale e il “gratis!” era assieme il destino segnato, quello che il mercato sembrava pretendere e anche la condanna a morte. Con i social network questo fenomeno ha avuto la sua consacrazione. È stato Facebook, e in particolare fu Sheryl Sandberg, portata in azienda da Zuckerberg come numero due, a consolidare un sistema che già Google aveva sperimentato con successo. Quello del finto gratis. Solo molti anni dopo, quando ormai i social network e Google erano nelle nostre vite e nessuno voleva più rinunciarci, qualcuno notò che se un servizio che usi è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu. Infatti nell’economia digitale c’è sempre un prezzo nascosto, anzi tre. Il primo siamo noi, la nostra attenzione, le nostre “palle degli occhi” come dicono gli americani. Più stiamo online, gratis, meglio veniamo profilati e più soldi fanno le aziende tecnologiche vendendo i nostri dati agli inserzionisti pubblicitari.Il secondo costo nascosto è il fatto che per conquistare la nostra attenzione gli algoritmi con i quali funzionano le piattaforme favoriscono i contenuti peggiori, quelli che provocano paura e rabbia, sentimenti che suscitano una attenzione garantita. Anche i giornali, che online competono sullo stesso mercato dell’attenzione, ricorrono a titoli ad effetto su argomenti insulsi per conquistare un clic. La nostra coesione sociale, la qualità dell’informazione e la tenuta delle democrazie, è quel costo. È un costo impossibile da quantificare, ma enorme.C’è infine un ulteriore costo nascosto ed è l’impatto ecologico del digitale, che, per quanto appaia immateriale, funziona tramite datacenter, router e cavi in fibra ottica. Consuma, inquina e visto che per via della gratuità lo usiamo continuamente, inquina parecchio. In un libro inchiesta che sta facendo discutere parecchio, il giornalista francese Guillaume Pitron, sostiene, dati alla mano, che «Internet è una minaccia per il pianeta».Il modello fintamente gratuito scricchiola da un po’ per varie ragioni: nel caso di libri, dischi, film e partite di calcio è stato il diritto d’autore a favorire la nascita di piattaforme (Spotify, Netflix, Dazn, Disney +) che vivono con un mix di abbonamenti e pubblicità. Nel caso dei social sono state le regole sul trattamento dei dati personali a rendere meno facile fare profitti tenendoci online. Il Digital Service Act europeo, appena entrato in vigore, è stato il colpo di grazie ad un sistema già in crisi per via della guerra dichiarata da Apple a Facebook.Per questo la pretesa di Elon Musk di far pagare 8 dollari al mese per diventare utenti privilegiati di Twitter è arrogante, è rischiosa, va contro la libertà di espressione di attivisti nei regimi totalitari, ma non è campata in aria. L’idea che tutto online debba essere gratis, quando non lo è, finalmente sta finendo.