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 2022  novembre 08 Martedì calendario

Carlo Borromeo e il nipote uxoricida

Dicembre 1570. Gian Galeazzo Sanseverino, conte di Caiazzo e di Colorno, da più di un ventennio al servizio della monarchia francese (nonché ufficiale nell’esercito regio contro gli ugonotti), durante una breve sosta nel suo feudo parmense, viene arrestato, trasferito nelle carceri romane dell’Inquisizione e processato per presunta adesione al calvinismo. Un episodio assai anomalo che ha già attirato l’attenzione di qualche storico (Charles Hirschauer, Alain Tallon), ma è adesso oggetto di uno studio ancor più approfondito di Gigliola Fragnito, Il condottiero eretico. Gian Galeazzo Sanseverino prigioniero dell’Inquisizione, edito dal Mulino.
L’anomalia del caso consiste nel fatto che il Sanseverino è in realtà digiuno di qualsiasi nozione teologica e il processo a lui intentato si rivela agli occhi dello storico come qualcosa che ha poco a che spartire con le eresie. Si tratta piuttosto di una vicenda riconducibile alle iniziative di Papa Pio V, al secolo Michele Ghislieri (1566-1572), contro la Francia di Caterina de’ Medici, sospettata per aver inaugurato un’ambigua politica di rappacificazione tra cattolici e ugonotti. Era sufficiente un pretesto – come ben spiega Elena Bonora in Giudicare i vescovi. La definizione dei poteri della Chiesa postridentina (Laterza) – per offrire a Pio V l’occasione di prendere iniziative contro Caterina – dapprima reggente per conto del figlio minorenne Carlo IX, ma anche in seguito – indiscusso potere del Regno di Francia.
Caterina fu in effetti l’imputata ombra di quel processo al Sanseverino. L’ambasciatore veneziano presso il re di Francia Michele Surian la annoverava tra coloro che erano «contrari alla vera fede». Lei reagì con durezza all’arresto del Sanseverino, chiedendone al Papa l’immediato rilascio. Vide in quell’atto quel che probabilmente era: un’iniziativa per mandare a monte la politica che, dopo tre guerre religiose, mirava a rendere possibile una pacifica convivenza tra cattolici e calvinisti. Ma intravide altresì una forma di ricatto per costringere la Francia ad entrare nella Lega antiturca che Santa Sede, Venezia e Spagna avrebbero varato l’anno successivo, nel 1571. Dopo un po’ Pio V si rese conto d’aver creato un inutile quanto infruttuoso incidente diplomatico. I francesi mandarono a Roma Jean de Vivonne signore di Saint-Gouard, che ebbe con Papa Ghislieri un colloquio dai toni assai bruschi. Il Pontefice continuò a definire il Sanseverino un «criminale» e – sempre più minaccioso – disse di Saint-Gouard che era un «ubriaco». Ma alla fine fu costretto a cedere. Gian Galeazzo venne restituito alla corte di Parigi, dove fu nominato membro del Consiglio privato di Carlo IX (1572). Prese poi parte, con onore, all’assedio della roccaforte ugonotta di La Rochelle (1573). E, due anni dopo, fu ucciso in un agguato teso dagli ugonotti (1575).
Il processo a Gian Galeazzo Sanseverino è descritto da Gigliola Fragnito con una grande attenzione ai dettagli. Fin da principio fu evidente la «palese ignoranza» del supposto eretico in merito alle «dottrine al centro del dibattito teologico aperto dalla Riforma». Sicché si cercò di metterlo in difficoltà «sull’osservanza dei giorni di magro», per poterlo accusare di «svalutare i riti e precetti della Chiesa». Ne venne fuori un dibattimento a tratti surreale nel corso del quale il Sanseverino fu costretto a dare spiegazioni su che cosa avesse mangiato in una o in un’altra occasione. E alla fine sbottò: «Io ceno ogni sera come ho fame, et non so d’altra cena!».
Dal momento che l’imputato era stato tratto in arresto «per indizi di eresia e di errori compiuti in Italia» e poiché in terra italiana egli aveva soggiornato solo a Colorno, l’Inquisizione ritenne di coinvolgere in quell’iniziativa l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, che aveva giurisdizione su quella parte della penisola. Più precisamente l’Inquisizione decise di avvalersi della testimonianza d’accusa di un parente dell’arcivescovo, un «figlioccio» che aspirava ad impadronirsi del feudo di cui era proprietario Gian Galeazzo: Giovan Battista Borromeo. Il testimone era un ragazzo molto caro al cardinale: rimasto orfano di padre e di madre, era stato preso sotto la protezione del futuro santo, divenendone una sorta di figlio adottivo. C’era – ad ogni evidenza – l’ombra del cardinale dietro le accuse del Borromeo (figlioccio) al Sanseverino. Alla studiosa appare «indubbio» che l’accanita lotta antiereticale avesse spinto il cardinal Borromeo ad accumulare, lui stesso, «prove» contro Gian Galeazzo Sanseverino. Ma è altrettanto evidente che il cardinale – quando Papa Ghislieri si piegò a più miti consigli – decise di non provocare un’ulteriore esasperazione dei rapporti con la Francia e scelse di lasciar cadere le accuse del suo protetto contro il «condottiero eretico». Vale a dire che si prestò a «operazioni di occultamento» delle denunce di Giovan Battista. E non sarà, scrive Gigliola Fragnito, «né la prima, né l’ultima volta» che il futuro san Carlo fece una cosa del genere. In che senso?

Alcuni anni dopo il processo di cui si è detto, scrive Gigliola Fragnito in un’interessantissima appendice al libro, i cognomi Borromeo e Sanseverino si incrociarono nuovamente. Stavolta il cardinal Borromeo fu «costretto a esercitare la sua protezione per evitare che Giovan Battista Borromeo fosse condannato a morte». Condannato alla pena capitale per un reato gravissimo: uxoricidio. Cosa era accaduto? L’8 marzo del 1577 Giovan Battista in un raptus d’ira aveva ucciso a colpi di pugnale la moglie Giulia Sanseverino. Il delitto era avvenuto al cospetto delle loro figlie adolescenti, Ippolita e Corona, nonché di una zia monaca Anna Giulia, sorella del padre dell’uccisa. Era presente al delitto anche Anastasia del Carretto, una delle gentildonne incaricate di accudire la giovane sposa.
Quello tra Giovan Battista e Giulia era parso in principio un matrimonio equilibrato, a dispetto dei dubbi del padre della sposa, Gian Francesco Sanseverino. Equilibrio che aveva caratterizzato anche i rapporti tra le famiglie dei coniugi. La zia monaca si rivolgeva con naturalezza a Carlo Borromeo chiedendogli aiuto per le difficoltà economiche del monastero di Sant’Agostino di cui era badessa. Fu un altro futuro santo, Andrea Avellino, guida spirituale di Giulia, il primo ad avvertire l’arcivescovo di Milano che qualcosa in quell’unione non andava più «per il verso giusto»: il «signor conte», riferì l’Avellino, trattava male, molto male la «signora contessa». Ma, trascurando quello ed altri evidenti segni di squilibrio del suo protetto, Carlo Borromeo non ritenne di intromettersi nella sua vita privata.
A sorpresa, però, quando Giovan Battista trucidò la moglie, il cardinale si occupò in prima persona della faccenda. Come prima cosa, si raccomandò che l’uccisa fosse sepolta nella chiesa di San Francesco di Saronno con «ogni modestia et semplicità christiana». A quel funerale, secondo il cardinale, si addiceva un rispettoso silenzio. Nelle modalità delle esequie secondo la studiosa si può intravedere l’intento di far passare la morte di Giulia «per una disgrazia». Sarà questa del resto «la versione che verrà sostenuta e divulgata dalla cerchia familiare» dei Borromeo. La giustizia civile stabilì invece che si era trattato di un delitto senza attenuanti e che l’uccisore meritava la pena capitale. «Non si è lontani dal vero nel ritenere che tanto rigore da parte del Senato e del governatore scaturisse dai rapporti conflittuali con l’arcivescovo», scrive la storica. In effetti quando nella primavera del 1566 Carlo Borromeo si era insediato stabilmente a Milano, aveva trovato che «fin dai tempi dei Visconti e degli Sforza» e in seguito «con l’arrivo degli spagnoli», le autorità civili «avevano esercitato un controllo sempre più intrusivo sulle istituzioni ecclesiastiche, fino a ledere diritti e prerogative degli ordinari delle diocesi dello Stato». La tensione era andata aumentando di giorno in giorno. Denunciato al re Filippo II come «perturbatore della quiete pubblica», ostacolato dai governatori e dal Senato, Borromeo «non esitò a difendersi a colpi di scomunica». Scomuniche che «non risparmiarono né governatori, né senatori, creando un clima di forti tensioni». E fu in questo clima che il «figlioccio» del cardinale venne condannato a morte.
L’uxoricida, nel frattempo, si era dato alla fuga – riparando a Locarno in territorio svizzero – e sosteneva una tesi singolare: il pur meritato patibolo non gli avrebbe concesso il tempo necessario ad espiare per il suo «scellerato eccesso». Doveva restar perciò vivo «per salvare l’anima sua dal peso della colpa». Scrisse una lettera alla zia monaca in cui si scusava per averla costretta ad assistere ad uno «spettacolo così abominevole». Destinò una cospicua dote alle gentildonne che avevano accudito la moglie, una delle quali, Anastasia, aveva assistito all’assassinio (e qui Gigliola Fragnito avanza il sospetto che con quei soldi intendesse comprarne il silenzio). Qualche tempo dopo l’assassino accuserà la «santa» Anna Giulia d’esser stata la causa dell’uxoricidio, talché, secondo l’autrice, è «ipotizzabile» che l’untuosa lettera di cui si è detto poc’anzi, fosse stata «scritta sotto dettatura di qualche collaboratore del cardinale Borromeo onde accreditare fin da subito la tesi del delitto non premeditato».

Il cardinale a questo punto provò – su sollecitazione del Papa – a convincere Lavinia, madre della vittima, a perdonare il genero. Lavinia chiese in cambio di essere nominata tutrice delle nipoti, ma non ottenne soddisfazione. La stessa Lavinia decise allora di non concedere il perdono all’assassino della figlia. Il quale attese la morte della suocera, poi mandò le figlie a Milano e le mise sotto la protezione del cardinale. Cardinale che, da questo momento, si diede addirittura carico di indicare a Giovan Battista il «percorso spirituale attraverso il quale redimersi». E ottenere così il perdono dell’autorità pubblica. Nell’illustrargli la via alla redenzione, il cardinale – rifacendosi a una leggenda – gli portò ad esempio il re longobardo Astolfo, che aveva ucciso la moglie Giseltrude. Era stato poi Papa Stefano II ad indicare ad Astolfo il modo di espiare la colpa. Un ottimo precedente. Ma Giovan Battista reagì alla lettera del cardinale in modo risentito, giudicando la comparazione con Astolfo del tutto impropria. Il re – secondo il racconto tramandato – aveva ucciso la moglie per sposare un’altra donna e si era trattato dunque di un omicidio premeditato. Giovan Battista insisteva invece a sostenere che il suo delitto dovesse essere considerato come frutto di un’esplosione di rabbia. Anzi quasi si insospettì che il cardinale non si fosse reso conto di avergli indicato un percorso che avrebbe comportato l’ammissione della colpa.

Il futuro san Carlo propose allora di affiancargli un gesuita, che lo avrebbe guidato lungo la via del ravvedimento. Ma Giovan Battista respinse anche questa idea. Ci avrebbe pensato lui per conto proprio ad osservare rigidamente i precetti d’espiazione. E fu premiato. Ad appena due anni dal delitto, nell’agosto del 1579 il governatore spagnolo gli concesse la grazia. Giovan Battista vivrà da uomo libero per il resto dei suoi giorni, fino al 1596 quando, alla sua morte, il cardinale Federigo Borromeo – celeberrimo personaggio de I promessi sposi, cugino di san Carlo, anche lui arcivescovo di Milano – disporrà per l’uxoricida solenni funerali benedetti dalla Chiesa.
Gigliola Fragnito è assai indulgente nei confronti del cardinale manzoniano. La sua decisione, sostiene, «rientrava nella normalità». Assai meno comprensiva è, invece, con «l’indiscussa protezione di un assassino» da parte di Carlo Borromeo. Non ci si può, infatti, «non interrogare», scrive la storica, «sull’atteggiamento a dir poco accondiscendente del futuro santo nei confronti del parente». Cioè, prosegue Fragnito, «sull’uso che fece della propria autorità a tutela di un criminale». E ci si deve interrogare anche sul «silenzio dei biografi» in merito a questa tragedia che, se resa nota, «non avrebbe mancato di macchiare l’immagine del santo». Siamo in presenza di un esplicito atto d’accusa nei confronti delle decine di storici che si sono occupati di san Carlo, tra i quali i più recenti (non menzionati, tranne uno, dalla studiosa) sono stati Danilo Zardin con Carlo Borromeo. Cultura, santità, governo (Vita e pensiero); Paolo Pagliughi con Carlo Borromeo. I destini di una famiglia nelle lettere del grande santo lombardo (Mondadori); Marco Navoni in Carlo Borromeo. Profilo di un vescovo santo (Centro ambrosiano). Tra loro, Pagliughi è l’unico che – in un altro libro, Il cardinal Federico Borromeo (Marietti) – abbia accennato all’uxoricidio. Ma in una maniera che Fragnito definisce «decisamente approssimativa e sciatta». Per di più, secondo lei, con «un uso disinvolto delle fonti».
A questo punto, senza disconoscere il fatto che san Carlo manifestò «un impegno deciso per il rinnovamento della vita morale e spirituale» della Chiesa, va rilevato che, secondo la studiosa, si adoperò con altrettanto vigore «per la salvaguardia dell’onore della nobiltà». Con la propensione ad «assolverla dai più foschi reati» per «non indebolirne il potere politico in ambito civile ed ecclesiastico». Nel caso specifico, inoltre, si trattò di difendere i privilegi e gli interessi di quello che era «un vero e proprio clan, la famiglia Borromeo, dalle vaste ed estese diramazioni». Espressioni ben calibrate. E molto dure.