la Repubblica, 6 novembre 2022
Quante medicine consumiamo?
Aristil ha gusto per i colori. «Vedete? Metto le pillole rosa vicino a quelle blu… Se la presentazione non attira, il cliente non compra». Sulla sua testa, le cartine dei medicinali formano un’ardita torre a forma di cono rovesciato, tenuta insieme da elastici. Aristil è un candyman, l’uomo dei confetti. Ad Haiti, dove esistono solo 170 farmacie ufficiali per 11 milioni di abitanti, i farmaci vanno in giro così, sui marciapiedi, venduti anche uno per uno, tagliati dal blister con le forbici.
Fotografando Aristil e i suoi colleghi, alcuni anni fa, Paolo Woods, fotografo cosmopolita, si è fatto qualche domanda. Pillola rossa, pillola blu… come quelle che Morpheus propone a Neo: svegliarsi e dimenticare tutto, o restare nel paese delle meraviglie? Anche in questo, Matrix ha visto giusto. Il fatturato dell’industria farmaceutica mondiale ha triplicato i profitti in vent’anni. Ogni mese seicento nuove farmacie illegali aprono bottega sul Web. Cosa chiediamo davvero a tutte queste pillole? Solo di curare i nostri malesseri? Certo che no. Alle pillole chiediamo la felicità. In subordine, l’assenza di infelicità. Liberaci dal male: non il Padre Nostro ma Big Pharma ha infine esaudito le preghiere dei mortali. Almeno, ci ha dato l’illusione di farlo.
Così, da un incontro per strada, è cominciata questa inchiesta giornalistico- artistica che Paolo Woods e Arnaud Robert, scrittore e regista svizzero, hanno condotto per quattro anni in molti angoli del mondo, alla ricerca dei lenimenti artificiali dell’anima, le capsule della felicità. Happy Pills adesso è un libro edito in Francia da Delpire, una mostra ed anche un film presentato in anteprima al Festival dei Popoli di Firenze.
Hanno esplorato un pianeta dove un terrestre su quattro non ha accesso ad alcun farmaco, ma un altro su quattro inghiotte almeno una pillola al giorno. Ed è la media del pollo, ovviamente. Un collega di Woods, Gabriele Galimberti, è entrato spudoratamente nelle case di borghesi e proletari, facendo agli inquilini un ritratto con tutte le loro medicine disposte sul tavolo: a volte sono una muraglia, a Parigi come a Mumbai. A differenza dei corpi, le medicine non hanno frontiere. In quegli armadietti del bagno, in quei cassetti del comodino c’è «il diario delle nostre molecole ». D’accordo, c’è l’antiacido e l’aspirina, ma ecco, c’è anche qualcosa che ha meno a che fare coi malesseri del corpo che con quelli dell’anima. Sonniferi, antidepressivi, ansiolitici, euforizzanti. Virilizzanti: 4 miliardi di pillole di Viagra ogni giorno scendono nella gola di maschi che non soffrono tanto di disfunzione erettile quanto di ansia prestazionale. Virilità dopate. Supporti chimici alla meccanica genitale. A volte, strumenti di lavoro: vedi, ad esempio, la storia di Roy, gigolò in servizio a MontecatiniTerme.
Happy Pills funziona così: cifre, dati, e storie individuali. Ecco, in Niger, quella di Alzouma, venditore ambulante di limoni: azzera la fatica quotidiana col Tramadol. Nel suo paese se ne consumano 17 milioni di compresse all’anno, ma è ormai un dirompente fenomeno mondiale, camuffato sotto 519 nomi commerciali diversi. Pillole per anestetizzare la schiavitù da lavoro. La fatica considerata come una patologia.
Ma è questo il punto: l’annullamento del confine fra il fisiologico e il patologico. Le pillole non curano più solo le ammaccature delle nostre funzioni. Promettono adeguatezza a standard performativi sempre più alti. Ady è una ragazzina americana media, carina, biondina, coi jeans strappati e la felpa Calvin Klein, ma va male a scuola. Lezioni private?
No, amfetamine, hanno deciso i genitori. L’opposto della pigrizia, l’irrequietezza degli adolescenti americani, è invece sedata con fiumi di Ritalin. Guai a non prendere bei voti, la mediocrità è considerata una malattia. Chissà poi perché, in tutti i suoi selfie, Ady ci fa la linguaccia.
Ma è poi felicità? Ma guardiamo le facce dei bodybuilder indiani, i più fanatici del mondo: coi muscoli gonfi di steroidi, e i genitali castrati dallo stress chimico, corpi erotizzati e paradossalmente svirilizzati, sono obbligati a sorridere quando tendono i bicipiti allo spasimo, ma diventa un ghigno straziante.
Pillole, pillole ovunque. Tra gli sterpi dei campi riarsi della Nigeria, Woods fotografa il luccichio di migliaia di blister abbandonati. Pillole, dalla culla alla tomba, si direbbe. Le storie delle ragazze madri peruviane ci parlano di una pillola, la pillola per antonomasia, sicuramente strumento di liberazione sessuale ma anche peso che ricade solo sulle spalle delle donne. La storia di Louis, malato terminale, e del suo suicidio annunciato, ci ricorda invece che il Pentobarbital viene usato sia per l’eutanasia che per le esecuzioni capitali; e lo usò anche Marilyn. E ancora, pillole per cancellare un trauma antico e incistato. Pillole per amare senza terrore: il PrEP, una specie di preservativo chimico anti-Aids consumatissimo dai gay prima degli incontri occasionali. Pillole per combattere il male oscuro: ecco la storia di Patrick e dei suoi sognati e sognanti album di fotografie che parlano di viaggi e di serenità che non ha.
Si chiamava Soma (corpo) l’elisir della felicità profetizzato meno di un secolo fa da Aldous Huxley, nel suo Il migliore dei mondi: «Puoi portare con te, in una bottiglietta, almeno metà della tua moralità». La redenzione chimica dalla condizione umana, diceva, sarà una specie di «cristianesimo senza lacrime». Ma forse, più che la religione c’entra la politica. In fondo, una umanità artificiosamente anestetizzata è più docile. Il messaggio di Happy Pills dopo tutto è questo: la nuova forma di controllo sociale autoritario della postmodernità non è la repressione, ma la sedazione.