Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 07 Lunedì calendario

MORIRE DAL RIDERE – PARLA ANGELO TAFFO, A CAPO DELL’IMPRESA FUNEBRE FAMOSA PER IL BLACK HUMOR DELLE CAMPAGNE PUBBLICITARIE – UN’AGENZIA NATA IN ABRUZZO AGLI INIZI DEL ’900, ARRIVATA A COLLABORARE CON “THE WALKING DEAD” FINO A REALIZZARE IL FUNERALE DI PIETRO SAVASTANO IN “GOMORRA” – “LA PRIMA BARA LA COSTRUÌ MIO NONNO A 15 ANNI E LA MODIFICÒ PER UN CLIENTE COL NASO TROPPO LUNGO” – “LA MORTE È UNA DISGRAZIA MA RIDERCI SU FA VIVERE MEGLIO…’’ -

Stragi del sabato sera causate dall’abuso di alcol. I manifesti dell’impresa funebre Taffo lanciano il loro messaggio anticonvenzionale: la foto di un’auto nera per il trasporto dei feretri e la scritta: «Se guidi, non bere. Non costringerci a fare gli straordinari!». Emergenza Covid. L’iconografia fuori dagli schemi della ditta Taffo punta sull’immagine di due bare con casse acustiche centrali e l’annuncio: «Discoteche chiuse? No Problem. Voi pensate alla musica, le casse le portiamo noi».

Gli esempi potrebbero essere decine, anzi centinaia. Il black humor rappresenta infatti il focus pubblicitario dell’impresa Taffo, un marchio di fabbrica che l’ha trasformata in fenomeno social. Con un ardito paragone si potrebbe dire che Angelo Taffo, 60 anni, e Giacomo, 34, rispettivamente padre e figlio [...], stanno al caro estinto come l’inflazione sta al caro vita.

Intanto la domanda filosoficamente seria incombe sui Taffo (e non solo): si può ridere della morte? Sarebbe fin troppo facile rispondere: «Dipende dal buongusto con cui lo si fa». Peccato che applicare la categoria del «buongusto» - «borghese» e «conformista» (come le etichette, con approccio vagamente radical chic, il saggista Andrea Coccia) - al genere dell’«umorismo nero» rischia di essere una contraddizione in termini, stante che l’«ironia macabra» trova la sua ragion d’essere proprio nella forza - «antiborghese» e «anticonformista» - della battuta noir.

Ci si muove dunque lungo una linea d’ombra, dove la risata (o lo sdegno) dipendono dalla vibrazione del nostro diapason emotivo, frutto di cultura e sensibilità personali. Risultato: la freddura «cinica» può al tempo stesso divertire o indignare. Parole d’ordine, quindi: equilibrio, rispetto e sensibilità.

Sul punto è d’accordo Angelo Taffo che ha investito sull’ironia pubblicitaria solo dopo un rigoroso esame di coscienza sul piano etico e morale: «Io e mio figlio ci siamo imposti di non urtare mai la suscettibilità di chi soffre per un lutto. La morte è una disgrazia che va gestita con estrema delicatezza. Detto ciò, approcciarla con un pizzico di garbato umorismo può aiutare a vivere meglio...».

Ed è proprio questa la mission - tutt’ altro che impossible - dei Taffo che da anni concimano il campo «santo» delle tumulazioni col seme della creatività. Il catalogo degli slogan-choc è una miniera di invenzioni: inaugurato a colpi di cartelloni lungo le strade cittadine, ha poi traslocato sui muri virtuali delle metropoli-social diventando oggetto di studio nel campo del digital advertising, senza contare le web community dove le pubblicità «made in Taffo» rastrellano migliaia di «mi piace»; con annessi post: l’equivalente online dell’antico «segue dibattito» tipico dei cineforum d’essai.

Fatto sta che il «thanatos marketing» by Taffo è apprezzato da morire. E tra i fan delle «offerte funerarie» non ci sono potenziali clienti già con un «piede nella fossa», bensì schiere di giovani scattanti impegnati a studiare la strategia comunicativa multitasking dello staff messo su da papà Angelo (il tradizionalista un po’ nostalgico del passato) e dal figlio Giacomo (il tecnologico proiettato nel futuro). Un brainstorming intergenerazionale che ha partorito campagne cult che hanno ricevuto anche riconoscimenti istituzionali.

Signor Taffo, come e quando le è venuta l’idea di «giocare» con la morte? «L’idea venne a mio figlio Giacomo, dopo il terremoto che devastò l’Abruzzo il 6 aprile 2009: lui aveva preso poco prima la licenza classica, uno studente brillante con un futuro promettente davanti a sé. Ma io commisi un errore di cui ancora mi pento».

Quale «errore»?   «Lo catapultai nell’inferno del dopo sisma, tra le centinaia di cadaveri a cui ogni giorno dovevamo dare degna sepoltura. Giacomo affrontò in poche settimane la carica di stress che chi fa il mio mestiere accumula in 30 anni di lavoro».

Una realtà terribile. «Non dimenticherò mai la telefonata che ricevetti il 6 aprile 2009 dal sindaco dell’Aquila sconvolto dalla drammaticità della scossa: Angelo, quante bare hai disponibili?».

Una domanda che già dava il senso del dramma. «Io gli risposi: Cosa significa? Cosa vuoi dire?. E lui: Qui è una carneficina, sotto le macerie le vittime sono centinaia».

Vengono i brividi solo a pensarci.   «Fu in quell’istante che capii la dimensione apocalittica della sciagura. Io gestivo, nel mio paese di Poggio Picenze (L’Aquila), l’impresa Taffo di pompe funebri. Compresi che da solo non ce l’avrei fatta, avevo bisogno dell’aiuto di mio figlio. E Giacomo non si tirò indietro».

Fu dopo la sciagura del terremoto che pensaste di iniziare a percorrere la strada inedita dell’umorismo nero? «L’idea fu di Giacomo. E sono convinto che si trattò, da parte sua, di una forma di autodifesa psicologica».

In che senso «autodifesa psicologica»? «Una forma di esorcizzazione del dolore. Un modo per superare lo choc che rischiava di paralizzarci il corpo e la mente. Giacomo nei giorni successivi al sisma ha assistito a scene traumatiche: bambini morti, disperazione umana, gente che aveva perso gli affetti più cari e non aveva più neppure una casa».

Uno scenario dove a trionfare era solo la morte.   «Allora è scattato l’interruttore. Ci siamo detti: dobbiamo risollevarci, prendendoci la rivincita sulla morte. E per farlo non c’era strumento migliore dell’ironia».

E i familiari delle vittime come l’hanno presa? «Hanno compreso perfettamente il nostro intento. Che non era certo di tipo speculativo, ma al contrario puntava a onorare attraverso un sorriso anche la memoria dei defunti e dei loro parenti».

Dunque nessuna protesta, nessun risentimento nei confronti della vostra scelta? «Qualche critica ci è giunta da fuori, ma mai dalla comunità locale».

Tra voi e il territorio abruzzese c’è un legame particolare. «È un legame basato sullo spirito di compartecipazione. Posso farle un esempio per spiegare meglio?».

Prego.   «Durante i funerali di un ragazzo morto in un incidente stradale, la madre era abbracciata alla bara del figlio e non ne voleva sapere di staccarsi. Lacrime, urla, disperazione. Io mi avvicinai, le strinsi le mani e le dissi: Signora, se vuole rimanere un altro giorno con suo figlio, non deve preoccuparsi. La tumulazione la rinviamo di 24 ore, non c’è problema.... E così avvenne. Mi beccai la reprimenda del prete e di varie autorità, ma ebbi la riconoscenza di quella madre. Ne vado orgoglioso anche perché lei ogni volta che mi incontra mi racconta un sogno».

Quale sogno? «Lei che incontra il figlio, si baciano. E c’è un uomo che li guarda da lontano. E sa chi è quell’uomo?».

Chi è? «Sono io».

Una storia struggente.   «Ma non voglio commuovermi. Posso raccontarle una vicenda che la farà ridere?».

Magari. «Le nostre pubblicità controcorrente sono state notate addirittura negli Usa e la Fox ci chiese, in occasione della presentazione della terza serie di The Walking Dead, di realizzare una bara con delle mani insanguinate che uscissero dalla cassa. Una troupe venne dagli States a Poggio Picenze per visionare l’opera e registrare il trailer».

E una volta arrivati in Abruzzo cosa accadde? «La bara piacque molto. Dopo di che parcheggiammo la cassa all’interno del nostro deposito e andammo tutti al bar a bere un caffè. Ma sul più bello, ecco arrivare la telefonata del custode del deposito: Venga subito, qui è entrata sua cugina, ha visto la cassa con le mai insanguinate ed è morta di paura».

Era morta davvero?   «No, per fortuna era solo svenuta».

Meno male. Facciamo un passo indietro. Ma l’azienda Taffo l’ha ereditata o l’ha fondata? «Diciamo che io e mio figlio l’abbiamo sviluppata trasformandola nel tempo da piccola impresa a conduzione familiare a grande azienda dal respiro nazionale».

Tutto cominciò però all’inizio del ’900 con il bisnonno Giuseppe, che con quel nome non poteva che fare il falegname... «Vero. Suo padre aveva un piccolo laboratorio dove costruiva ogni tipo di manufatto in legno e, ovviamente, anche le casse da morto che a quei tempi erano - per usare un eufemismo - assai spartane».

Poco più di 4 tavole inchiodate alla meglio.   «La prima cassa nonno Giuseppe la fece a 15 anni, apportando una leggera modifica al design del coperchio della bara».

Racconti. «Il morto aveva un naso particolarmente lungo che necessitò la creazione di una piccola nicchia all’altezza della faccia».

Dell’interesse degli americani della Fox abbiamo già detto dando conto della cassa con le «mani esterne» che ha fatto venire un «coccolone» a sua cugina, ma anche gli italiani della serie «Gomorra» si sono rivolti alla Taffo per un funerale importante: quello del boss Pietro Savastano. «Un’esperienza entusiasmante. Giacomo è stato invitato sul red carpet a Cannes a fianco di tutti i protagonisti di Gomorra, la serie italiana più famosa al mondo».

I problemi causati dal Covid sono stati diversi da quelli creati dal terremoto? «Il covid è stato un nemico ancora più subdolo. Perché all’inizio non sapevamo nulla di lui. Tanto da decidere di rinunciare al nostro tradizionale umorismo nero».

È vero che siete specializzati anche nei «funerali» degli animali domestici? «Si tratta di cremazioni. Poi le ceneri vengono consegnate ai padroni».

Quante cremazioni di questi tipo fate ogni anno? «Almeno 100. E non si tratta solo di cani e gatti, come si potrebbe credere».

Ah no? E quali altre bestie avete cremato? «Anche un coniglio e un pappagallo. Il padrone del coniglio, quando telefonò, fece una premessa: Signor Taffo, l’avviso che non si tratta di uno scherzo...».

Quali sono, se ce ne sono, gli aspetti più sgradevoli del suo lavoro? «Ho sempre amato il mio lavoro. Se fatto con scrupolo e coscienza è un’attività che regala serenità e ti fa capire l’esatta gerarchia dei valori. Spesso si litiga per cose irrilevanti, dimenticando quelle davvero fondamentali dell’esistenza».

C’è ancora chi, al passaggio dei «becchini», fa gesti scaramantici?   «Molto meno che in passato. Ma sacche di ignoranza e stupidità ancora resistono. Basta saper rispondere a tono, magari con una battuta azzeccata».

A lei, vista l’esperienza umoristica, non mancheranno certo le risposte... «Mio figlio Giacomo, su questo fronte, è stato un buon maestro. Il suo approccio scanzonato alla morte ha influito anche sul mio carattere. Io sono sempre stato un tipo gioviale, ma oggi lo sono ancora di più».

Ma lei, Angelo Taffo, teme la morte? «Ho paura della sofferenza. Ne ho vista tanta e quindi so quanto sia devastante». [...]