Specchio, 6 novembre 2022
Biografia di Andrea Vianello raccontata da lui stesso
ndrea Vianello dice che un buon modo per fare bene il giornalista è pensare che raccontare una storia può cambiare il mondo. Da ragazzino voleva diventare uno scrittore, ma gli sembrava un sogno troppo grande e irraggiungibile, allora diceva solamente di voler fare il giornalista. Ed è quello che ha fatto: il giornalista, il conduttore, il direttore (di Rai3, di RaiNews e adesso di Radio1 e del Giornale radio). Tre anni fa ha avuto un ictus, ha perso l’uso della parola, dopo mesi lo ha riacquisito – «mi ha salvato la mia logopedista, è stata come la mia mamma» –, è tornato a lavorare, ha scritto un libro su quei mesi tremendi, Ogni parola che sapevo (Mondadori), si è detto che era il momento di dare una chance a quel bambino ambizioso ma timido, ha scritto un romanzo uscito a fine ottobre, Storia immaginaria della mia famiglia (Mondadori).
La sua bio su Wikipedia comincia così: «Nipote del cantante Edoardo Vianello, del poeta Alberto Vianello, dell’attore Raimondo Vianello (rispettivamente zio diretto, nonno e cugino del padre), intraprende la sua carriera nel 1992».
Suo zio ha scritto "I Watussi", "Abbronzatissima", "La partita di pallone", il cugino di suo padre ha inventato Casa Vianello, suo nonno era un poeta futurista: lei aveva un romanzo in casa e non ne ha scritto.
«Mi interessava creare un’altra famiglia».
Non le piaceva la sua?
«Mi piaceva tanto da usarla come punto di partenza, ma poi le storie devono prendere altre strade e i personaggi vivere altre vite e liberarsi, almeno loro, dal destino. Ho voluto parlare soprattutto di due nonni, perché i miei li ho persi piuttosto presto e per tutta la vita ho pensato a come sarebbe stato averli come interlocutori.
Come sarebbe stato?
«So soltanto che, cambiando le loro storie, non ho voluto riscattarli, almeno non nel senso che s’intende ora, e cioè assegnando loro una vittoria. Ho voluto, invece, dare giustizia alla semplicità della loro storia, che non ha niente di eroico, ma anche i non eroi mandano avanti il mondo».
È un risarcimento?
«No. In esergo, ho messo una frase di un romanzo che amo molto, Pedro Pàramo di Juan Rulfo: racconta di un uomo che cerca il suo padre naturale in un paese dove sono tutti morti, e parla con i morti. È il libro che Alvaro Mutis diede a Màrquez per aiutarlo a superare il blocco che gli impediva di finire Cent’anni di solitudine. È il libro che mi ha guidato in una avventura che ho provato a fare: parlare con i miei morti, tenerli sempre presenti, dare loro non tanto un’altra vita, quanto una chance di farsi capire meglio. La letteratura credo debba dire sempre questo: i vivi e i morti convivono. E gli scrittori credo debbano sempre dare un’altra possibilità a qualcuno».
Perché si finisce sempre a scrivere di famiglie?
«Perché sono contenitori naturali di storie e leggende che affidano a ciascuno di noi il dovere e il piacere della memoria».
Cosa c’è di integralmente vero nel suo libro?
«L’incontro tra mia madre, intransigente comunista, e Almirante, nel 1977, ad Harrods, Londra: lei lo scambia per un vicino di casa e lo saluta con effusioni, lui ricambia senza scomporsi, io capisco tutto e la allontano dicendole che ha sbagliato persona, che ha stretto la mano ad Almirante, lei inorridisce, si maledice, il giorno dopo lo incontra di nuovo in un parco, gli si avvicina per dirgli che ritira tutto, che non avrebbe mai voluto stringergli la mano, lui risponde "Per me invece è stato un onore"».
Nient’altro?
«Mio padre, il fratello di Edoardo, quando erano insieme diceva davvero "lui è quello che canta, io sono quello che conta". Come fa nel libro il fratello dell’artista Rudy Corallo, ispirato a Edoardo, ma molto diverso da lui».
Lo chiama Edoardo, non zio?
«Edoardo, da sempre. Poi ogni tanto lo canzono e gli dico "Caro Zio!" E lui mi risponde: "Caro Nipote!"».
Un buon attacco di teatro canzone.
«Di canzoni, insieme, ne abbiamo scritte tante, ma sono state un insuccesso dopo l’altro. Gli unici pezzi non riusciti di Edoardo Vianello sono quelli che ho scritto io. Abbiamo provato anche ad andare a Sanremo ma ci hanno sempre bocciati. Lui non riusciva a capacitarsene».
Avreste dovuto farvi raccomandare.
«Macché. Ogni tanto qualcuno mi scrive che faccio il direttore in Rai grazie a mio zio. Che idea bislacca hanno i leoni da tastiera del potere e di chi lo esercita: per loro persino un cantante che ha avuto un grande successo negli anni Sessanta può influenzare gli equilibri di un’azienda come la Rai».
Forse perché questo Paese ha un’idea bislacca del merito?
«Più che bislacca, direi controversa. Ed è dovuta a molti fattori, uno dei più importanti dei quali è il fatto che le società che sanno premiare il merito sono quelle dove si esce presto dalle famiglie: in Italia non se ne esce mai».
Perché non sappiamo premiare il talento?
«Il talento non ha mai vita facile ma alla fine vince, anche in un posto che non lo ama perché lo invidia e lo subisce. Penso sempre a quella scena in cui Sergio Castellitto, in Caterina va in città di Virzì, si mette a urlare al Maurizio Costanzo Show: "In questo paese c’è spazio solo per certe conventicole" e poi dice alla figlia "noi siamo esclusi perché siamo diversi", e non ammette mai la possibilità di aver lui sbagliato qualcosa. Questo è il vero tema: siamo in grado di riconoscere che quando non abbiamo accesso a qualcosa può non essere colpa del sistema, degli altri, della politica, dell’Italia, ma solo e soltanto nostra? I due nonni protagonisti del mio libro incarnano precisamente questa consapevolezza, e il rammarico silenzioso che ne consegue».
E che non li incattivisce.
«Vengono entrambi da famiglie normali, semplici, medio borghesi: le classiche famiglie italiane che, nella maggior parte dei casi, almeno negli anni in cui sono cresciuto io, erano portate avanti da uomini e donne abituati a sacrificare le ambizioni personali, e a farlo senza che questo li inacerbisse: al massimo, un po’ li intristiva. I loro sogni non si sono potuti compiere, ma proprio questo ha permesso che si compissero quelli degli altri. Senza la stabilità economica che mio padre ha mantenuto per tutta la vita con la sua attività, io non sarei diventato giornalista. E non sono così ingenuo da pensare che l’unico obiettivo di mio padre fosse la mia realizzazione. Ecco cosa ho raccontato: com’è stato, per gli uomini e le donne che dal boom fino ai primi anni Ottanta hanno vissuto per la propria famiglia, convivere con la frustrazione della parte più intima di sé. Che risvolti di tenerezza, e non di acrimonia, ha avuto».
Racconta di uno dei nonni che viene interrotto quando sta per fare un discorso a Fanfani, e perde così un’occasione agognatissima, che non gli si presenterà più.
«E non se la prende con nessuno, nemmeno con se stesso, perché gli è chiaro che non tutti possono farcela, che non basta voler far parte di un mondo per poterci entrare».
Tutti umili a casa sua?
«Non so se sia umiltà, so che non ci prendiamo troppo sul serio. Ma poi perché dovremmo? Perché mio zio è un genio? Noi abbiamo vissuto sempre tutto con grande naturalezza, convinti che ciascun lavoro fosse ugualmente importante e che di certo non fosse il lavoro a dare importanza alle persone».
Prova nostalgia?
«No. Ma voglio bene al mio bagaglio, lo rispetto, ogni tanto lo guardo. Mi dispiace solo che non ci sia più la speranza vivissima e allegra che c’era negli anni Sessanta».
Chi è nato in quegli anni ha un qualche dovere?
«Lo stesso dovere di tutti: lavorare immaginando di poter cambiare il mondo».
Lei lo fa?
«Ci provo».
Il potere le piace?
«Mi piace usarlo per innovare le cose».
Perché si fa così poco, in questo paese?
«Perché innovare è l’opposto del mantenere lo status quo».
Lei da direttore di Rai3 ha mandato in onda Newsroom in prima serata.
«Non è stato un successo di pubblico, e lo immaginavo. Ma in quella rete c’erano altri prodotti molto forti che consentivano anche di ospitarne altri meno popolari, ma belli e importanti: cos’altro deve fare il servizio pubblico?»
Ha trasferito la redazione del GR1 in Ucraina, a Leopoli, a dieci giorni dall’inizio della guerra.
«Il mondo stava cambiando sotto i nostri occhi: dovevamo andare a raccontarlo da vicino. E poi era importante la portata simbolica: un paese era stato invaso, entrarci con una redazione era un modo per stargli vicino. A me ha dato una forte emozione personale, spero anche agli ascoltatori, che però non hanno visto metà del lavoro: quello dei tecnici e degli operatori per trasportare le apparecchiature, montarle, farle funzionare».
Cosa deve fare il giornalismo per tornare in forma?
«Fare bene, anzi, al meglio, quello che ha sempre fatto: solo così potrà riacquistare l’autorevolezza necessaria a vincere la grande sfida lanciata all’informazione dalle fake news e dalla rete. E quello che ha sempre fatto è raccontare storie, andare nei posti dove succedono o stanno per succedere, intuire e scoprire. La guerra ci ha trovati impreparati: eravamo attorcigliati nella cronaca, a volte morbosa, di realtà molto vicine a noi, e avevamo dimenticato il mondo fuori. Nonostante questo, ha tirato fuori una generazione di inviati giovani molto bravi, coraggiosi, che ho ammirato».
Lei è nato il 25 aprile del 1961.
«Mi commuove sempre un po’».
Com’è la sua generazione?
«Individualista. Abbiamo avuto un’infanzia incantata e un’adolescenza tremenda: era il ‘77, del grande sogno di quegli anni abbiamo attraversato solo la parte violenta e buia. A vent’anni siamo stati inghiottiti dal disimpegno degli anni Ottanta, ci siamo divertiti e non abbiamo saputo opporci a niente, ci siamo portati dietro un senso di colpa non esattamente condizionante e ci siamo limitati a fare carriera. Se fare il giornalista oggi è un’impresa eroica e senza garanzie, credo che sia anche colpa nostra, che questo lavoro siamo stati gli ultimi a farlo prima che diventasse quasi impossibile».
Cos’è più condizionante, il passato o gli altri?
«Un’interazione delle due cose, che intendo così: il passato è quello che siamo; gli altri sono quello che vorremmo essere».
Lei che per molto tempo le ha perse, crede che le parole siano così importanti?
«Lo sono, e ho combattuto per riaverle perché mi servivano a comunicare con i miei figli e mia moglie. Nella mia vita, le ho sempre usate molto, moltissimo, fino a farne quasi un virtuosismo. Ora le parole stanno in un’altra parte di me, e tirarle fuori da lì è sempre un po’ complicato, allora ne apprezzo la preziosità, ed è il regalo bellissimo che mi ha fatto una cosa bruttissima».
Come mai nel suo romanzo non c’è nemmeno uno stronzo?
«Non ce ne sono già abbastanza dappertutto?».