La Stampa, 6 novembre 2022
Intervista allo scrittore indiano Amitav Ghosh
Amitav Ghosh, scrittore indiano che vive tra New York e Goa, è uno degli intellettuali più interessati al racconto della relazione tra uomo e natura, uno dei più sensibili al cambiamento climatico, alla lotta per la salvaguardia del pianeta. In un’antologia ideale che tenti di inaugurare una letteratura ambientale, i curatori lo farebbero figurare tra i fondatori del genere. Dei suoi romanzi, però, lui ha sempre detto che non raccontano il cambiamento climatico, bensì «il tempo che viviamo».
Ghosh, lei si considera un attivista?
«Non propriamente. Per esserlo, è necessario avere giovinezza ed energia, e io sono troppo vecchio. Ma cerco di supportare gli attivisti in vari modi, per esempio partecipando a eventi con i Fridays For Future».
Però, pur non essendo un attivista, è impegnato nella causa attraverso la letteratura che può aiutarci ad acquisire più consapevolezza…
«Lo spero, davvero. Ma se qualcuno non si convince del cambiamento climatico con la propria esperienza e con tutte le prove scientifiche che ci sono, è improbabile che venga convinto dalla narrativa. È questa la realtà».
Non crede che la letteratura, e quindi il suo lavoro, possa avere un effettivo impatto sul mondo?
«Dipende da cosa intende con effettivo. La narrativa può cambiare il mondo? Ne dubito, perché vivere in un mondo in cui tutto è guidato da una sorta di macchina economica e tecnologica, dove l’arte si è tecnologizzata, non può far succedere nulla di che. In questo senso, sarebbe pomposo da parte mia dire che la narrativa può cambiare tutto, perché non può. Ma, allo stesso tempo, scrivo romanzi e devo fare del mio meglio».
È influenzato dalla sua identità di cittadino statunitense di origini indiane?
«Direi che sono stato influenzato soprattutto dagli scrittori afroamericani, che hanno avuto un ruolo importante nella mia crescita. James Baldwin, ad esempio, ha avuto una grandissima influenza su di me: ho iniziato a leggere i suoi libri quando avevo diciassette o diciotto anni e questo ha giocato un ruolo importante nella mia evoluzione. La stessa America, specialmente New York – un luogo d’incontro di molte culture, spesso in lotta tra loro – è stata davvero importante.
In La grande cecità(Neri Pozza) lei si rivela contrario al sottogenere della climate fiction, in quanto esso immagina storie catastrofiche ambientate nel futuro, quando l’emergenza climatica è all’ordine del giorno.
«Non si dovrebbe trattare questo argomento come un romanzo fantasy: come qualcosa che accadrà in futuro. Possiamo già vedere che sta succedendo qualcosa di assolutamente strano. Sì, è come essere in un romanzo fantasy, ma questa non è una fantasia».
Quindi si può dire realmente contrario al genere…
«Non direi di essere contrario alle persone che scrivono romanzi di climate fiction o di qualsiasi altra cosa. Quando proiettiamo un disastro o una distopia nel futuro ci distraiamo da ciò che sta accadendo attualmente attorno a noi».
Allora la letteratura può essere più efficace nella sfera sociopolitica?
«Dobbiamo chiederci cos’è meglio, cosa porta un cambiamento e cosa no. I politici non stanno cambiando, nessuno lo sta facendo. E sarebbe troppo aspettarsi che la letteratura lo faccia. Ma allo stesso tempo penso che ciò che la narrativa può fare sia aiutare a immaginare diverse possibilità per il futuro, e penso che questo sia davvero molto importante. Non ci possiamo aspettare che gli economisti o i politici abbiano una diversa immaginazione per il futuro. Ma è qui che gli scrittori di narrativa, invece, possono fornire idee». —
L’intervista è tratta dal libro "Via col verde" (Edizioni Santa Caterina)