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 2022  novembre 06 Domenica calendario

Intervista ad Andrea De Carlo

Al centro di una stanza elegante, antica, ordinata con scrupolo, Andrea De Carlo siede alle spalle di due grandi finestre. Fuori, Milano. E il grigio che soltanto a Milano fa luce, sottolinea la strada. Perlato, opposto al «grigio persecutorio» che lui raccontava, trentatré anni fa, in Due di Due, il suo romanzo più amato sulla scoperta dello scarto che c’è tra cosa vorremmo essere e cosa riusciamo a essere.
Dice che a colpirlo di più sono gli alberi fuori: nessun’altra delle cose preziose, belle, intriganti che riempiono il salotto lo cattura altrettanto.
Nella prefazione a Il treno di panna, il suo esordio, Italo Calvino scrisse che De Carlo, allora ventisettenne, era l’unico autore giovane che il dentro lo mostrava dal fuori, che era «proiettato sull’esterno» e aveva «una insaziabilità negli occhi che bevono lo spettacolo del mondo». Quarant’anni e 21 libri dopo, nel suo nuovo romanzo, Io, Jack e Dio, in libreria dall’8 novembre per La Nave di Teseo, De Carlo cerca ancora di capire il dentro dal fuori, uscendo. E racconta la storia di un uomo e una donna che si erano persi e si ritrovano, lei ferita e smarrita, lui ferito e deciso, lei sola e lui in una comunità di frati che hanno fondato un ordine minore: non una setta di estremisti ma otto radicali puri che provano a costruire un rapporto migliore con dio, anziché inventarne un altro. La chiave della storia è in una frase attribuita ad Annibale, che si legge a poche pagine dalla fine: «Se non esiste una strada, ne costruisco una».
De Carlo, ha scritto d’amore o di fede?
«Soprattutto d’amore. Così mi si è presentata la storia: un’amicizia che ci mette anni a diventare quello che è, a chiamarsi con il suo vero nome e però proprio a quel punto, quando si svela, incontra un terzo incomodo, Dio, che da una parte scombina tutto e dall’altra, invece, tiene insieme i due piani di questa relazione, li integra».
Se le dicessi che, invece, il suo sembra soprattutto un libro di fede?
«Forse perché entrambi i protagonisti, Jack e Mila, i due amici che si amano, cercano la verità. E la cercano anche i frati, anche quelli che vanno ad ascoltarli e quelli che li insultano e minacciano: tutti, anche i più reticenti».
Anche lei?
«Anche io»
La fede non è la fine della ricerca?
«Ne è la guida. E l’ho imparato documentandomi per scrivere questo libro, che ho iniziato da non cristiano e ho finito da non cristiano».
Ma?
«Ma sono convinto che non siamo solo un ammasso di cellule: casualità e materialità non ci spiegano».
Dove sta la verità?
«Nell’altro, che è sempre l’occasione di una domanda, quindi anche di una risposta».
Ma è anche un limite. O i limiti non esistono e li inventiamo?
«Esistono, e servono a definire un territorio, come i confini geografici: senza, il mondo sarebbe troppo vasto, ne saremmo sopraffatti. Li abbiamo inventati perché siamo noi stessi a ricondurre le cose al loro interno: quando molti elementi li confermano, ci sembra che siano invalicabili, superabili soltanto con una crisi totale».
Aiutano la fantasia o no?
«La imbrigliano. Tuttavia, per scrivere si deve scegliere una prospettiva attraverso cui raccontare una parte di mondo, e questo comporta, e anzi è, autolimitarsi».
C’è qualcosa che non riesce a portare nei suoi libri?
«Non sempre i personaggi fanno quello che voglio io. Ed è in quel momento, quando mi dicono "io questa cosa non la faccio", che capisco di avere la mia storia».
Cioè il personaggio funziona quando lo scrittore non si immedesima?
«Io non penso mai a cosa farebbero loro. Agisco come se fossi loro. Per mesi, vivo come fossi loro».
Si è messo nei panni di una donna anche stavolta.
«È sempre incredibilmente affascinante. È un esercizio mentale che cambierebbe il mondo, se ogni uomo lo facesse».
Scrive che le donne hanno un rapporto vitalissimo con il passato.
«Ho amiche che hanno sempre conservato tutto: scontrini, nastrini di segreterie telefoniche. Si dice sempre che il passato deve servire a capire il presente, e pensiamo molto di meno al fatto che il presente ci aiuta a capire il passato. Le donne, invece, ci pensano eccome».
E gli uomini?
«Tendono ad archiviare. Hanno bisogno di classificare gli eventi, dividerli in successi e fallimenti. Così, se alcune cose sono andate male, capitalizzano l’esperienza e dicono: cerco di non commettere di nuovo quell’errore».
Lei crede nella differenza tra donne e uomini?
«Sì, ci credo. Molte le abbiamo inventate, le supereremo, ma credo che ne produrremo sempre di nuove, più o meno utili al nostro adattamento. Penso anche, però, che non esistano soltanto donne e uomini».
Nel suo libro c’è una rilettura esaltante e ragionevole della Bibbia.
«Penso che rileggere le grandi opere sia importante, doveroso. Talvolta anche pericoloso, perché rischia di manometterle, ma forse dovremmo avere più fiducia nel fatto che il tempo ci regala sensibilità diverse, ulteriori, e uno sguardo più penetrante e consapevole».
E poi c’è la cancel culture: può essere che sia giusto cancellare alcune cose per levarcele di torno?
«È difficile rispondere. Di certo se leggi un testo della Bibbia che trabocca di una cultura persecutoria, maschilista, opaca e ricattatoria, hai un bell’interpretare, trasporre, considerarlo in senso allegorico, ma è quello che vedi e leggi, è esistito, ed è stato orribile. Se lo leggi come Nostradamus, allora puoi pensare che vada reciso per evitare che si ripeta».
Lei crede che uno scrittore debba sempre scrivere di ciò di cui si vergogna?
«Credo che uno scrittore debba mettersi in pericolo».
In che modo?
«Onorando un patto di lealtà a se stesso e di onestà verso il lettore: io scrivo la storia che sento, e cerco di fare in modo che sia importante anche per te».
Sembra amore.
«Perché lo è».
Due persone che si amano fanno bene al mondo?
«Assolutamente. Producono e irradiano energia positiva. Creano luce, ottimismo, voglia di fare altre cose belle. E lo fanno anche le persone che amano loro stesse e sono contente di quello che fanno. Fa bene a tutti la contentezza di un artigiano, di un disegnatore, che mentre disegna ha la sensazione di decifrare il mondo».
Crede alle regole?
«Per coabitare in spazi ormai quasi sempre non naturali sono necessarie. Senza, non ci ritroveremmo a vivere in una meravigliosa Woodstock dei primi anni ’70 ma in un inferno di sopraffazione, dominati dagli istinti peggiori. L’essere umano non è bravo e bello. Basta guardare i bambini, la loro perfidia: è amorale e inconsapevole, certo, ma svela qualcosa della nostra natura, che contiene tanto il bene quanto il male».
Se il male esiste, come può scandalizzarci?
«Infatti a me non scandalizza: ci faccio i conti».
Cosa, invece, la scandalizza?
«Il fatto che esistano ancora persone convinte di poter risolvere qualcosa con la guerra. E poi la burocrazia».
Cosa la definisce?
«La curiosità. Per contro, mi colpisce molto che la maggior parte delle persone che incontro non sia curiosa degli altri».
Si innamora di chi la incuriosisce?
«Sì».
Si è innamorato molte volte?»
«Non moltissime ».
L’esperienza del mondo cosa dà e cosa toglie?
«Dà l’antidoto al il centro dell’universo. Toglie energie. Non sempre recuperabili».
Fare lo scrittore è?
«Un ruolo, anche».
Quindi ha dei doveri?
«Certo. Se scrivi un libro che trabocca sentimenti deteriorati e violenti, un pochino contribuisci a peggiorare il mondo, a renderlo un luogo un po’ più brutto e squallido. Se invece vai nella direzione opposta, lo migliori, lo illumini. I libri che mi piacevano e appassionavano da ragazzo mi aiutavano enormemente a vivere, a capire le cose. E quando mi è capitato di incontrare lettori che mi abbiano detto di aver cambiato alcune scelte dopo aver letto i miei libri, è stato incredibile. Ecco, da quella cosa non si torna indietro. Non dimenticherò mai un uomo che una volta mi disse di aver evitato di diventare avvocato dopo aver letto Due di Due. Ora fa il liutaio in Liguria ed è contento. E poi c’è un patto di onestà da onorare: mai scrivere una cosa perché pensi che possa piacere. Conosco benissimo la tentazione di replicare uno schema che ha funzionato, specie quando quello che schema lo hai inventato tu. Ma i romanzi sono viaggi, non obiettivi».
I lettori se ne accorgono quando si cerca di compiacerli?
«Sì. Imbrogliare o anche solo prevedereli è difficilissimo. Ed è la ragione per cui è impossibile sapere che destino avrà un libro».
A cosa pensa quando pensa e chi la legge?
«A quello che so da lettore: esiste una specie di stranissima collaborazione tra chi legge e chi scrive un romanzo. Quando leggi, se non evochi delle sensazioni che sono dentro di te, dei ricordi, dei luoghi del tuo immaginario, il romanzo non si anima: la vita gliela dai tu leggendolo».
Si è mai sentito imprigionato dal successo?
«Il successo di uno scrittore non è mai come quello di un attore o di un musicista. Non è così assillante, è molto più ragionevole. La cosa peggiore che può succedere è che non venga apprezzato il tuo libro migliore. Penso a Saint-Exupéry, che ha scritto cose eccezionali che nessuno ha letto: tutti conoscono solo Il Piccolo Principe».
E l’etichetta di scrittore giovane le è pesata?
«Alla mia prima fiera di Francoforte, incontrai Antonio Tabucchi. Io avevo poco meno di trent’anni, lui più di cinquanta. Ci infilarono tra gli autori giovani italiani. Ridemmo moltissimo».
Scrivere la affatica?
«Con un romanzo convivi e convivere è tanto difficile quanto inevitabile».
Si sente mai solo?
«Ho a che fare molto con la solitudine: scrivere la richiede».
Non va in tv, non scrive sui giornali, anni fa s’è dimesso dallo Strega, con tanto di lettera di protesta. Lei è il solo radicale con successo di pubblico di questo Paese.
«Non mi sento un radicale. Ma più che tenermi stretto il pubblico, l’ho sempre sfidato. Già scrivere un primo romanzo è un atto di incoscienza, perché se fossi consapevole pienamente dei rischi che corri, non lo faresti»
Quali rischi?
«Il rischio del ridicolo, e di pensare di dire delle cose che invece sono già state dette e anche molto meglio».
Ha fiducia nei suoi lettori?
«Sì, ma sono anche disposto a rinunciarci. Sono capace di dirmi: se non andrà e non piacerà, non me ne frega niente. Quando ho conosciuto Ken Follett, che fa solo best seller tutti uguali, mi è parso di parlare con un bancario».
Che succede se fallisce?
«Che cambio lavoro, e che sarà mai».