La Stampa, 7 novembre 2022
Storia dell’eroina
Per raccontare la lunga e mai interrotta storia che Vanessa Roghi narra in Eroina (Mondadori) si può partire da un barcone sul Tevere, che suo malgrado diventa il simbolo di come una certa visione della droga abbia fortemente condizionato i modi di fronteggiarne la diffusione.
È il 21 marzo 1970. Sulla prima pagina del quotidiano conservatore Il Tempo un articolo innesca l’allarme: «Infame centrale del vizio nel cuore di Roma. Casa della droga per minorenni in un galleggiante sul Tevere». La ricostruzione parla di un’irruzione della polizia fra una novantina di minorenni, le ragazze in minigonna e i ragazzi con i capelli troppo lunghi. Il sequestro avrebbe riguardato «hashish, eroina, sostanze eccitanti, siringhe, alcolici alterati, ricettari rubati, traveller’s cheque falsi». Paese Sera rilancia parlando delle vite inquinate dei «figli di pezzi grossi», ritenendo inconciliabile militanza di sinistra e uso di qualsivoglia stupefacente (primo errore di moltissimi). Bisognerà attendere tre anni, e un’inchiesta di Stampa Alternativa e Prova radicale, per scoprire che non c’era nessun minorenne drogato e che il sequestro consisteva in tre grammi di hashish, ritrovati nel cestino dei rifiuti. Ma il più era fatto: serviva il panico, e panico era stato.
Vanessa Roghi è una storica, scrive spesso di scuola e dei suoi protagonisti (Don Milani, Gianni Rodari, Mario Lodi), con acume e felicità narrativa: nel 2018, però, ha pubblicato un prezioso libro, Piccola città (Laterza). Una storia comune di eroina, dove indagava, fra personale e politico, esattamente sullo stigma dell’eroinomane, da una parte, e dall’altra adombrava un prossimo intervento sulla sottovalutazione della diffusione attuale delle sostanze dette pesanti.
È uno degli argomenti centrali di Eroina: com’è possibile che, dopo un calo costante dei decessi di overdose durato 15 anni, questi tornino ad aumentare dal 2017? Com’è possibile che l’età del consumo di eroina, magari fumata, si sia abbassata a 14 anni? Perché negli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta, le overdose sono tornate a essere la prima causa di morte accidentale, superando gli incidenti stradali? Nella maggior parte dei casi, lo ignoriamo. Come scrive Roghi, sappiamo molto dell’epica dei narcos e nulla o quasi del drogato, a cui si continua a riservare quasi esclusivamente lo stigma.
Roghi parte, appunto, dalla storia. Ovvero dalla nascita dell’eroina come prodotto farmaceutico alla fine dell’Ottocento, brevetto Bayer. Prima ancora c’era la morfina, che era alla base dei decotti usati per calmare i bambini e farli dormire: e ne morirono tantissimi. L’eroina entra in commercio come analgesico perfetto: in Italia arriva nel 1898 con il nome di superfortina. Non se n’è mai andata anche se, scrive Roghi, è la più antisociale delle droghe: perché è la merce ideale, occupa poco spazio, si può tagliare, porta molti guadagni. C’è la proibizione negli Stati Uniti nel 1923: e il proibizionismo insegna che insieme al divieto nasce il tabù culturale condiviso, dunque i drogati diventano subito gruppi minoritari, spesso stranieri, di certo pericolosi. E viziosi. Dino Buzzati scriverà il suo ritratto del morfinomane che vaga per farmacie, il caso Montesi riporterà in primo piano la tendenza "al vizio" dell’alta borghesia. Perché questa convinzione («la droga non è di sinistra») durerà molto a lungo. L’Unità scriverà: «L’oppio è sempre uno strumento di oppressione anche quando si veste da hippy». «Drogarsi non è da compagni», insisterà negli anni Settanta la stampa di sinistra: con poche eccezioni, fra cui quella di uno straordinario giornalista come Carlo Rivolta, che l’eroina la conosceva bene, e che morirà di overdose nel 1982. E come quella di Macondo, di Mauro Rostagno, e soprattutto di Fausto e Iaio e della loro inchiesta perduta.
La demonizzazione del drogato va di pari passo con quella del metadone: ci si inchioda all’idea di esclusione, marginalizzazione, segregazione. Eppure sarebbe bastato leggere Andrea Pazienza per capire che l’eroina si diffuse anche come antidoto alla cupezza e alla seriosità dei compagni e del movimento.
Arrivano le leggi. La Iervolino-Vassalli, ispirata da Craxi a sua volta folgorato dalla tolleranza zero di Rudy Giuliani, la Fini-Giovanardi del 2006, dichiarata incostituzionale sette anni dopo aver riempito le carceri. Di nuovo. Le carceri italiane, dice Roghi, hanno il primato delle persone detenute per violazione della normativa in materia di stupefacenti, ovvero piccoli spacciatori e consumatori di vario tipo. La sostanza più utilizzata e punita è la cannabis, seguita dalla cocaina. Invano più esperti hanno provato a dire che forse bisognava pensarla diversamente: con l’epidemia di Aids e di "panico morale", quello stigma peggiora e si incancrenisce nella convinzione secondo la quale non si convive con chi si droga. Eppure, come spiega bene Roghi, non ci si droga per stare male: diventa dipendente chi trova nella sostanza una risposta stabile a una domanda che già esiste.
Ma noi preferiamo pensare che salvezza e dannazione dipendano dai singoli individui, e non dal sistema sanitario e sociale in cui si trovano a vivere. Da qui bisognerebbe partire, per provare a ridurlo, quel danno.