Fabrizio Roncone per corriere.it, 7 novembre 2022
“IO TIRCHIO NON SONO. LA CONOSCO QUESTA VOCE CHE CIRCOLA. SE VOLESSI, POTREI COMPRARMI LA CASINA VALADIER MA NON LO COMPRO PERCHÉ NON MI VA” – FABRIZIO RONCONE RACCONTA ALBERTO SORDI – L’INTERVISTA CULT DI ORIANA FALLACI A ALBERTONE ("TUTTI ME VOGLIONO MORTO, VOGLIO DIRE CONIUGATO") E QUELLA VOLTA CHE GASSMAN GLI CHIESE SE FOSSE CREDENTE, E LUI: “VITTÒ, E CHE TE DICO? NELL’INCERTEZZA, HAI VISTO MAI...”. BENIAMINO PLACIDO SCRISSE DI COME ERANO ORMAI I ROMANI A PARLARE E COMPORTARSI COME SORDI, E NON IL CONTRARIO…" - VIDEO -
Questa non è la storia di Alberto Sordi. Questa è una storia su Alberto Sordi. Piccola, molto personale. Conservata, con cura, nel cassetto segreto che ciascuno di noi possiede. Qui al Corriere mi hanno chiesto di aprirlo.
Così devo tornare indietro alla mattina del 25 febbraio 2003. In una camera d’albergo a Pisa, dentro la luce sporca che filtra dalle persiane. Con il portiere che, alle 7.30, bussa, consegna il pacco dei giornali e chiede: «Ha saputo?». No, cosa? «È morto Sordi». Non mi ha nemmeno detto buongiorno. Ma aveva questa urgenza: avvertirmi del lutto nazionale.
Sento una mano afferrarmi le budella. No, Alberto no. A Roma, lo chiamiamo tutti per nome: più che un amico o un mito, un parente stretto. Ripenso a Beniamino Placido che, in occasione del suo settantesimo compleanno, scrisse di come i suoi personaggi cinematografici avessero inciso così tanto sui romani, sulla loro psiche e sul loro linguaggio, che erano ormai i romani a parlare e comportarsi come Sordi, e non il contrario.
È morto a 82 anni, poche ore fa. Malato da tempo. Poi una bronchite diventata polmonite. Me lo immagino nella penombra della sua villa di via Druso, le finestre con le serrande sempre abbassate sul panorama delle Terme di Caracalla. Apprendo dalla tivù che già molte persone sostano davanti al portone, in cima alla collinetta. Sarei stato tra loro, abito a poche centinaia di metri, e invece sono qui: il giornale mi ha chiesto di raccontare i no global che bloccano i convogli ferroviari carichi di armi, dalla base americana di Camp Darby le portano a Vicenza, gli Stati Uniti si preparano ad invadere l’Iraq.
Poi squilla il cellulare. La riunione del mattino, in via Solferino, sta per cominciare: bisogna programmare pagine su pagine, chiedono un contributo di idee. Butto giù qualche banalità, saluto mortificato. Per vanità, ogni giornalista vorrebbe sempre seguire il fatto del giorno: stavolta, invece, io vorrei solo essere un romano tra i romani.
La giornata scorre grigia. Un po’ il cielo basso, di piombo, un po’ la retorica di quei finti rivoluzionari (uno dei capi era Nicola Fratojanni, adesso onorevole Fratojanni, che è riuscito a portare in Parlamento persino la moglie, Elisabetta Piccolotti): lavoro in coppia con il mio fraterno amico Enrico Fierro, inviato speciale dell’Unità. Che, sebbene sia di origini irpine, come me adora Alberto. Insieme andiamo a sentire i portuali di Livorno: annunciano che rallenteranno, in tutti i modi, i lavori di carico sulle navi yankee. Da Roma, intanto, arriva la notizia che il sindaco Walter Veltroni ha dato ordine di allestire la camera ardente in Campidoglio, nella sala Giulio Cesare. Tra i primi ad arrivare, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accompagnato da sua moglie Franca; dietro, in coda, la processione di un’intera città.
La lettura dei quotidiani, il mattino seguente, fornisce la sensazione battente di una crudele diserzione sentimentale. Non essere lì. Non salutare Alberto. Inaccettabile. Eppure è a Pisa che dobbiamo restare: alle 17, in piazza Sant’Antonio, è prevista una manifestazione. Agenti in tenuta anti-sommossa. Blindati con gli idranti. Però non succede niente. Da Milano chiedono un racconto di 90 righe. Fierro prenota un tavolo alle 22.
Mangiamo ascoltando le notizie dalla tivù: il funerale si svolgerà nella basilica di San Giovanni, Gigi Proietti e Carlo Verdone terranno un discorso. La città è a lutto. Drappi neri alle finestre. Strazianti scritte sui muri. Enrico mi ripete a memoria alcuni brani del film Il Vedovo , in cui Sordi è il commendatore Alberto Nardi, un giovane industriale romano, megalomane, ma con uno scarso senso degli affari; sposato con la ricca Elvira Almiraghi/Franca Valeri, imprenditrice milanese spregiudicata e di successo che, tra ironia e rassegnazione, lo chiama «Cretinetti».
Nel lungo elenco dei necrologi usciti sul Corriere, struggente, e confuso tra i tanti, c’era anche quello della Valeri. «Ciao, Cretinetti. Milano, 26 febbraio». Ricordiamo altri tre film girati insieme dalla coppia: Il segno di Venere , dove Sordi si esibisce in uno strepitoso duetto con Peppino De Filippo; Piccola Posta, con Sordi che bacchetta le anziane di un ospizio; e Un eroe dei nostri tempi, film erroneamente considerato minore. La tagliata era squisita, abbiamo già quasi vuotato una bottiglia di rosso, squilla il cellulare: un amico comune ci spiega che il centro di Roma è bloccato; migliaia di romani, in silenzio nella notte, aspettano il loro turno, passo dopo passo, per andare a salutare Alberto. Enrico mi guarda. Io guardo Enrico. Stiamo pensando la stessa cosa.
Enrico, accendendosi una Camel: «Quanto ci vuole?». «Non meno di 3 ore e mezza».«Quindi potremmo essere a Roma intorno alle 4. Giusto?». «Enrì, la macchina che ho affittato è una Ford Focus…». «E noi la mettiamo alla prova, questa Focus».
Partire, un blitz tra passione e riconoscenza, contro il destino con dolcezza: che però comporta l’abbandono del servizio, sia pure per un tempo limitato. Se succede qualcosa, i rispettivi giornali sarebbero scoperti. Si va dalla lettera di richiamo, al licenziamento per giusta causa. Ma ormai abbiamo deciso. Enrico ordina il conto e due caffè doppi.
Un’ora dopo siamo in autostrada e ragioniamo sui migliori film di Alberto. Dobbiamo aiutarci con le categorie. Il Conte Max e Il Vedovo : leggendari. Una vita difficile , forse il migliore. Ma un centimetro dopo ci sono La Grande Guerra e Tutti a casa, con la commovente scena finale (Sordi che, durante la rivolta di Napoli, il 28 settembre 1943, mitraglia i tedeschi). A Firenze ci fermiamo a fare rifornimento, la Rai sta mandando in onda I magliari, film superbo, sottovalutato. Molti film di Alberto vengono spesso dimenticati: Ladro lui, ladra lei, Lo scapolo, Il seduttore, Fortunella , che fu diretto da Eduardo De Filippo. Alberto ha recitato con tutti i più grandi registi: da Fellini a De Sica, da Monicelli a Risi, da Comencini a Scola, a Rosi, Pietrangeli, Steno, Loy, Magni, Zampa. Riusciva a girare anche 12 film in un anno.
A lungo è stato l’attore più ricco di Cinecittà. Una volta lo intervista Oriana Fallaci e lui la invita alla Casina Valadier, al Pincio. Un caffè per lei, una granita per lui: «Chiariamo subito, madame. Io tirchio non sono. La conosco questa voce che circola. Se volessi, potrei comprarmi il locale. Ma non lo compro perché non mi va. Adesso mi va la granita».
Arriviamo in piazza Venezia alle 3,48 del mattino. Parcheggiamo l’auto sotto l’Ara Coeli e saliamo la scalinata del Campidoglio insieme ad un autista dell’Atac («Ho finito il turno e so’ venuto: Alberto è come un fratello maggiore») e un’infermiera in divisa («Sono sfinita, ma pareva brutto non esserci»). In cima, troviamo Luigi Coldagelli, all’epoca giovane addetto stampa del sindaco. Ci chiede da quale festa stiamo tornando. Gli spieghiamo tutto. Dice che siamo fortunati, hanno dovuto tenere aperta la camera ardente perché il flusso dei visitatori è stato inarrestabile.
Alberto giace al centro della sala. La bara è nascosta, sommersa da fiori e orsacchiotti, sciarpe della Roma, bigliettini. Per un istante, mi torna in mente l’unica volta che l’ho conosciuto. Sul set di uno dei suoi pochi film dimenticabili, Sono un fenomeno paranormale: la produzione reclutò a Paese Sera, dov’ero un cronista ventenne, alcune comparse che avrebbero dovuto interpretare il ruolo dei giornalisti durante una conferenza stampa.
Gli mando un bacio, faccio il segno della Croce — quella volta che Gassman gli chiese se fosse credente, e lui: «Vittò, e che te dico? Nell’incertezza, hai visto mai…» — risaliamo in macchina e, per tornare in Toscana, imbocchiamo l’Aurelia. Albeggia. Viaggiamo in silenzio. Esausti e soddisfatti. A Cecina accendiamo la radio.
Un’emittente locale ha messo su «Ma ‘ndo Hawaii»: è la celebre colonna sonora del film Polvere di stelle, e anche del nostro viaggio d’amore. Che finisce qui. Sono certo che Enrico, da qualche parte, l’avrà già raccontato anche ad Alberto.