il Giornale, 6 novembre 2022
Cop27, appena inizia sembra un flop
Oggi a Sharm El-Sheikh inizia la Conference of the Parties, detta COP27 dal numero delle repliche. Dopo la prima del 1995 a Berlino, le altre hanno solo recitato il medesimo copione, come si legge dal sito: «Costruire sui successi precedenti e preparare la strada per la futura ambizione di affrontare efficacemente la sfida globale del cambiamento climatico». Fantasia degna di un grande show, col suo red carpet dove sfileranno le élite planetarie, giunte su circa 400 jet privati che emettono la stessa CO2 di 15.000 europei in un anno. Mancherà Re Carlo III, che però ospiterà a Buckingham Palace un evento con circa 200 leader. Prima della conclusione il 18 novembre produrranno, in estenuanti riunioni fino a tarda notte, un documento tanto blando da poter recare la firma di tutti. Infine, appuntamento alla prossima replica da un’altra parte, essendo uno dei più longevi tra i meeting inutili.
Non c’è altra definizione possibile. Sono 27 anni che questa Conferenza denuncia il problema, forse il più grande che l’umanità abbia mai avuto di fronte, e indica la possibile soluzione: contenere la crescita delle emissioni di gas serra, principalmente la CO2, per fermare il riscaldamento del pianeta a 1,5 gradi sopra il livello preindustriale. Sono 27 anni che le emissioni aumentano, al punto che quel target è ormai irraggiungibile. Ora, capita a tutti di fissare un obiettivo e mancarlo. La tenacia spinge a riprovare e poi ancora. Ma andare avanti dopo aver scavallato il quarto di secolo non è tenacia, è stolidità. Serve un tuffo nella realtà, per quanto spiacevole.
Contenere, se non abbassare le emissioni, compete in gran parte ai paesi emergenti, Cina in testa. Secondo l’International Energy Agency, nel biennio 2020/21 la Cina, che è già di gran lunga il primo produttore di CO2 con oltre un terzo delle emissioni globali, le ha aumentate di 750 milioni di tonnellate, più che annullando lo sforzo del resto del mondo che le diminuiva di 570 milioni. Il problema è che abbassare le emissioni, come noi europei stiamo facendo dal 1980, costa molti soldi. Le economie in crescita hanno altre priorità, tipo nutrire gli abitanti e sviluppare le industrie. Di fronte a siccità e alluvioni, il compito di noi occidentali non è di andare in bici per ridurre ancor più le nostre già risibili emissioni, quanto piuttosto investire nelle rinnovabili proprio in quei Paesi, con capitali privati ma coperti da garanzie pubbliche, visto il rischio elevato che molti presentano. Infatti, il modello di sviluppo che le aree emergenti seguiranno farà la differenza nei prossimi decenni. Oggi Europa e Stati Uniti hanno lo stesso tenore di vita, ma gli americani emettono ogni anno 14 tonnellate a testa di CO2, noi solo 5. Tutti hanno diritto a godere del nostro stesso benessere, ma farlo all’americana significa cuocerlo il pianeta.
Oltre a ciò, bisogna accettare che l’energia fossile non può essere eliminata in tempi brevi, come la guerra ci ha bruscamente fatto notare, né completamente.
Infine, occorre prendere atto che l’obiettivo di contenere il riscaldamento è stato mancato e non è alla portata, visto che gli abitanti del pianeta e il loro benessere sono stimati in aumento: in questi giorni stiamo toccando gli 8 miliardi ed entro il 2050 toccheremo il picco a 9,7. Dunque, sarà il caso di attrezzarsi per contrastarne gli effetti devastanti. Poiché le popolazioni più esposte sono proprio quelle delle aree più povere, anche per questo è necessario un intervento economico importante che solo i capitali occidentali possono sopportare.