Avvenire, 6 novembre 2022
Ottant’anni di Mazzola
Sarò sincero, tra Mazzola e Rivera, pur non essendo di quella generazione, preferivo Giacomo Bulgarelli, l’onorevole di Bologna, signore di stile, fuori e dentro il campo. Ma certo è indiscutibile il valore di Rivera, quanto di Sandrino Mazzola, nato l’8 novembre di 80 anni fa. Era la domenica in cui, suo padre, il divino Valentino granata segnava il gol più bello del 5-0 che il Torino rifilò alla Fiorentina, con i viola che con il n “6” schieravano il futuro ct della Nazionale dell’epica “staffetta” Sandro Mazzola-Gianni Rivera: Ferruccio Valcareggi. Parliamo della staffetta azzurra di Messico ’70, «il più grande rimpianto della mia vita da calciatore, il Mondiale perso contro il Brasile di Pelè», sottolinea da sempre Mazzola. E quella, degli anni ’60 e inizi dei ’70 era l’Italia della disfida Mazzola- Rivera. «C’era una volta, un’Italia bella che usciva dalla guerra e che aveva tanta fame, come me e mio fratello Ferruccio. In Porta Ticinese, da ragazzini vendevamo le sigarette di contrabbando per tirare su qualche lira… C’era una volta, un popolo che si divertiva a mettere contro Coppi e Bartali e poi ha fatto lo stesso con me e Rivera... Questo oggi non può più accadere, per una ragione molto semplice, perché questo Paese, forse, è meno bello di ieri, ma soprattutto non ha più personaggi...», disse Mazzola l’ultima volta che siamo entrati nella sua casa monzese (a Vedano al Lambro) che guarda al giardino della Villa Reale. Solo lì può vivere un principe, figlio di un re qual è stato Valentino. Per molti il più forte giocatore del mondo degli anni ’40. Ma alla fine di quel decennio lo scettro glie lo strappò di mano il destino crudele: 4 maggio 1949, nello schianto di Superga perì tutto il Grande Torino. Valentino Mazzola volò via dritto in cielo, lasciando quaggiù due ragazzini innamorati del pallone, Sandrino e Ferruccio. «Dopo una perdita del genere impari a non piangere più... Spesso papà l’ho ritrovato nei sogni, che faccio ancora, ad occhi aperti. Rivedo di quando palleggiavamo assieme in allenamento o mentre ci cambiavamo felici nello spogliatoio del Torino: avevo il mio stipetto di fianco al suo, ci tenevo la maglia granata e i calzoncini bianchi».
Il giorno della morte del padre, il piccolo Sandro era con la “dama bianca” e accadde un fatto molto strano. «La compagna di mio padre mi mise su un’auto e partimmo da Torino, non so per dove. Ricordo solo che mi tenne nascosto in un mulino... Crescendo ho capito che, in pratica, quel giorno ero stato rapito. Mia madre, che viveva a Cassano d’Adda, aveva allertato carabinieri e tifosi. Mi vennero a cercare e quando mi trovarono accadde un fatto ancor più strano: nessuno che mi abbia detto, “sai, il tuo papà è morto”… Quel giorno ho scoperto di avere un fratello più piccolo, Ferruccio». Due “tusi” cresciuti per le strade di Milano e portati all’Inter da Benito Lorenzi, detto “Veleno” «che fece di me e Ferruccio le mascotte nerazzurre, così dal cielo gli arrivarono due scudetti di fila... ». Intanto il giovane Mazzola cresceva nel vivaio interista e guardava nostalgico a quella Torino dove suo padre era stato il re. Eppure, fu meno amaro il 9-1 con l’Inter al suo debutto contro la Juventus (nel 1961) che l’indifferenza provata quando rimise piede al vecchio stadio Filadelfia. «Nessun dirigente del Torino mi venne a salutare. Neanche il presidente Novo si scomodò. Eppure papà aveva chiamato mio fratello Ferruccio in omaggio a lui. Solo il magazziniere Zoso si era ricordato, venne con le sue figlie a farmi festa e mi disse: “Sandrino vieni a vedere nello spogliatoio...”. Aveva conservato il mio stipetto voluto da papà. Poi giocai la peggior partita della mia vita. Alla fine il mio allenatore, il grande Giuseppe Meazza, mi accompagnò nello spogliatoio dicendomi: “Ho capito tutto Sandro,
ma lassa stà”». Le parole tenere del maestro di campo e di vita che lo fecero maturare in fretta e diventare la stella dell’Inter con cui vinse 4 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali di fila. Ma per la storia di cuoio, era e rimane, soprattutto l’antagonista di Rivera. Il vero derby della Madonnina era quello tra l’Abatino rossonero e il Baffo nerazzurro. «Basta però con i luoghi comuni, Brera non dava dell’abatino solo a Rivera, ma anche a me e a Giacomo Bulgarelli. E di quel nostro dualismo, confermo, a pagare è stato proprio Giacomo: gran giocatore, più completo anche di Gianni e del sottoscritto. Io e Rivera, comunque, mai stati contro, anzi ci divertivamo a leggere e sentire che eravamo nemici... Un giorno, dopo una riunione del sindacato usciamo assieme dalla Stazione Centrale e i tifosi dell’Inter mi urlano: “Sandro vieni via, cosa cammini con quel milanista lì?”. Un minuto dopo, dei milanisti rimproverarono Gianni allo stesso modo». Anche gli sfottò rispettavano l’ordine della staffetta. «Mah, una cosa del genere poteva succedere solo in Italia, perché calcistica-mente eravamo ancora antichi e catenacciari nell’anima. Però se andiamo a guardare una quarantina di partite assieme io e Rivera le abbiamo comunque giocate». Nereo Rocco la staffetta non l’avrebbe mai concepita, il Paròn infatti sognava un Milan con Rivera e Mazzola in tandem fisso. Stravedeva per Mazzola anche il Mago Helenio Herrera, «mi faceva giocare come Crujff all’Ajax, ma in anticipo di dieci anni. Del resto il più grande degli allenatori in circolazione, José Mourinho, si ispira a lui, e ancora oggi il 50% di quello che si insegna a Coverciano è il sunto delle lezioni di Herrera». Lezioni che a Mazzola sono servite per diventare un fuoriclasse, la bandiera dell’Inter che ha sventolato in campo con la maglia nerazzurra in 564 battaglie (4° di sempre per presenze dopo Javier Zanetti, Bergomi e Facchetti). È stato capocannoniere della Coppa Campioni del ’64 con 7 gol, neanche Messi è arrivato a tanto a quell’età. «Eppure a me il Pallone d’Oro non me l’hanno mica dato...». L’altro piccolo rimpianto di una carriera stellare e benedetta dal cielo: «Quando stavo male, mi mettevo in ginocchio e parlavo con Padre Pio. E lui mi ha sempre aiutato ad andare avanti e a superare tutto». Auguri eterno Sandro.