Corriere della Sera, 6 novembre 2022
Da "Cuore puro. Quattro amici. Quattro destini. Una sola passione" di Roberto Saviano (Giunti)
Gli altri non ebbero nulla da ridire. Il tizio che aveva buttato a terra Giuseppe gli si piazzò davanti per fare barriera. Dario fece un mezzo passo indietro, guardò Rino, più avanti, come se volesse calciare verso di lui, ma invece colpì il maranese in pieno petto. La palla rimbalzò, smorzata solo a metà, e prima che l’avversario capisse cosa stava accadendo Dario riprese il pallone e si lanciò in una corsa furiosa verso la porta della squadra rivale. Un difensore tentò di bloccarlo, ma lui gli fece passare il pallone fra le gambe e continuò a correre.
«Vai! Vai! Va’!» gridava Giovanni. Sul muretto intorno allo slargo stavano seduti tutti i ragazzi del quartiere, una mezza dozzina di adulti e, da solo, con le gambe larghe e le braccia incrociate davanti al petto, Tonino Porcello. Il risultato era di 2 a 1 per i maranesi, restavano pochi minuti per rimediare. Gli spettatori cominciarono anche loro a gridare: «Vai, Dario, vai!», travolti dalla leggiadria di quell’azione.
Ormai davanti a Dario erano rimasti soltanto un difensore e il portiere, uscito fuori dai pali. In quel momento, a pochi passi dalla porta, fu scosso da un impeto d’ispirazione. Avrebbe fatto esattamente ciò che aveva visto fare pochi giorni prima in Atalanta-Juventus all’attaccante brasiliano Evair. Il nerazzurro, un tenero mascalzone alto un metro e novanta che faceva coppia fissa con Caniggia, aveva dribblato tutta la difesa ed era andato direttamente in gol scatenando l’applauso furioso dei tifosi atalantini. Dario gli somigliava persino, a Evair.
Si fermò per un rapidissimo istante, giusto il tempo di registrare la posizione del difensore e del portiere, quindi riprese a correre con un cambio brusco di traiettoria. L’avversario tentò una scivolata sbucciandosi un ginocchio, ma fu inutile. Dario era già oltre. Fra lui e la porta, adesso, c’era solo il portiere e, nelle orecchie, il battito del cuore che galoppava, carico di tutta l’adrenalina della giovinezza, che non corrisponde a un’età anagrafica ma all’istante in cui il corpo supera i suoi limiti grazie alla libertà dello spirito. Mentre il suo piede correva in mezzo alla polvere incollato al pallone, Dario era il più forte perché il suo cuore era puro, spalancato all’estasi del gioco.
«Vai, Dario, vai!» gridavano dal muretto, tutti in piedi ad agitare le braccia, a dimenarsi come panni stesi all’aria in una sera di libeccio.
«Vai! Vai! Va’!» gridavano Rino, Giuseppe e Giovanni. Dario rallentò, lui e il portiere si scrutarono con odio. Era rimasto fra loro non più di un metro e mezzo. Non si accorse dell’auto della polizia che si avvicinava al caseggiato. Né della prima, né della seconda, che la seguiva a pochi metri. Non si accorse neanche delle grida: «’O pallone! ’O pallone!» che arrivavano dai suoi compagni di squadra e che si confondevano con quelle provenienti dagli spettatori. I quali, adesso, gridavano anche loro: «’O pallone! ’O pallone!».
Nel parapiglia generale, i ragazzini iniziarono a scappare e urlare, terrorizzati, perché Dario non si decideva a lanciare il pallone innescando il consueto meccanismo d’allarme.
«Dario, ’o pallone!» gli gridavano gli amici «votta stu pallone!». Ma lui, nulla.
Presero allora a correre verso i portici, poi verso le palazzine, urlando «’O pallone! ’O pallone!», provando a rimediare alla défaillance dell’amico che adesso stava imbambolato davanti alla porta, da solo, senza neanche più il portiere avversario. Ma non servì a nulla. Un rituale imperfetto è un rituale vano, e tale fu quello a cui Tonino Porcello assistette impotente, mentre Dario, ormai solo davanti alla porta, svogliatamente calciava il Super Santos facendogli appena superare i pali e sussurrando fra i denti, con lo sguardo basso, una parola che nessuno udì: «Gol».