Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 06 Domenica calendario

Su "Cuore puro. Quattro amici. Quattro destini. Una sola passione" di Roberto Saviano (Giunti)

Un Super Santos rotola sul selciato. Quattro ragazzini inseguono la mitica «palla arancione fuoco con le strisce nere, rigorosamente disallineate»: i loro nomi sono Dario, Giovanni, Giuseppe e Rino. Stanno giocando la solita partitella del pomeriggio, nella piazza di periferia in cui vivono, tra una statua gigante di Gesù e la coda di tossici in attesa di una dose. Eroina, cocaina, crack. Una scena di normale quotidianità, anche per dei ragazzini che hanno poco più di dieci anni. Ciò che i quattro amici non sanno è che, mentre corrono e si divertono, stanno inseguendo anche il proprio destino. Non lo afferreranno. Perché nessuno batte mai la sorte, soprattutto se sei nato tra le saittelle — in napoletano: le feritoie dei marciapiedi spalancate sulle fogne — e le strade dove i clan imperversano. Il dominio criminale è all’apice, cresce a dismisura col traffico di droga, l’unico welfare per le gente del quartiere.

La mappa che Roberto Saviano consegna al lettore nel suo nuovo romanzo Cuore puro, in uscita il 9 novembre (Giunti, pagine 168, euro 16), porta su di sé l’imprinting dei luoghi e delle dinamiche tra personaggi che hanno reso celebre lo scrittore partenopeo. A leggerla in controluce e in profondità, allungando lo sguardo oltre l’antropologia camorristica, si tratta di una storia dal congegno narrativo inedito e dal ritmo coinvolgente, che trascina il lettore in un gorgo di smarrimenti ed emozioni, un viaggio in profondità attraverso il meglio e il peggio che l’essere umano ha da offrire in pasto al teatro della vita. Il libro nasce dalla riscrittura di Super Santos, racconto che l’autore sotto scorta aveva pubblicato nel 2005, prima del successo di Gomorra, in una raccolta a cura di Alessandro Leogrande per L’Ancora del Mediterraneo, apparso a più riprese in questi anni, anche per le edizioni del «Corriere della Sera». Fino alla recente decisione di riscriverlo, come lo stesso Saviano dichiara in premessa, per realizzare «un’escursione più ampia, nuotando sulla superficie della spensieratezza che quel pallone di gomma arancio fuoco trasmette e calandomi in profondità, nei fondali di certi luoghi partenopei dove troppo spesso la vita rimane incagliata».

Dallo schema iniziale di gioco che l’autore offre al lettore per orientarsi tra le scorie morali e sociali che fanno da cornice all’esistenza dei quattro amici con la passione del pallone, si dipana una struttura narrativa in due equilibrate metà — l’infanzia da scugnizzi e la vita da adulti, integrata al clan, dei protagonisti — che pagina dopo pagina compone un giro di valzer dal ritmo serrato e all’ultimo respiro, in cui il lettore avvertirà un crescendo di pericolosità sotto pelle: girare pagina, nel racconto di Saviano, è come svoltare quegli angoli bui di Napoli dietro cui nessuno può prevedere cosa ci sarà ad aspettarti. Un evento brutale, crudezza del vivere, violenza urbana. Quando il boss del rione Tonino detto «Porcello» — in realtà ce l’ha scritto persino sulla carta d’identità di essere un porco, scopriranno i nostri, in un’epifania alla good fellas — li inserirà nel suo granguignolesco gioco di droga e morte, approfittandosi della loro purezza, pagandoli per giocare a calcio e fare da «palo» alla piazza di spaccio che gestisce, tutto è già deciso per i nostri eroi.

Ma più dell’elemento criminale, a schiudersi tra i capitoli dalla scrittura compatta — Saviano attua la scelta stilistica di una prosa binaria e diretta, come un cuore che pompa sangue e innerva il resto dell’organismo — è l’animo dei personaggi, la loro perenne deviazione da un destino già scritto, l’eccezione che rappresentano in un contesto immutabile e crudele. Dario, Giovanni, Giuseppe e Rino. Non sanno di aver oltrepassato la soglia, non sanno che l’hanno oltrepassata alla nascita, per essere nati lì dove sono nati, per essere figli di chi sono i figli, per aver osato sognare di vestire un giorno i colori dell’amata squadra del cuore. Il gioco e la sua estasi, un cuore grande come un quartiere spalancato ad accogliere le pulsazioni dell’amato pallone che rimbalza sul cemento.

Più che verso Gomorra e La paranza dei bambini, Cuore puro rivolge lo sguardo alle radici del naturalismo francese, inabissandosi fino a Germinale di Émile Zola: ci sono meccanismi a tal punto oliati nella nostra società, dove l’accumulazione e l’arroganza del denaro è così efferata, che l’individuo è ormai spoglio del suo libero arbitrio. Ma i vinti non sono migliori di chi li ha sconfitti e nemmeno l’infanzia funge da membrana che può proteggerti dall’aggressione della corruzione. Un uomo corrotto è l’esatto opposto di un cuore puro. Ma quand’è, sembra chiedersi Saviano, che la purezza è diventata disonestà? Non verso le leggi e la collettività, perché quella è soltanto la copertura ideologica che il mondo borghese impone a tutti gli altri per continuare a fare i suoi affari, ma la più temuta: la disonestà verso se stessi. Quando abbiamo smesso di sognare, di «tendere, proiettare, ambire»?

C’è un momento nella vita di ogni adolescente del mondo, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi epoca, dal sapore tragico e feroce. È l’attimo irripetibile in cui la palla smette di rotolare e il tuo amico del cuore svanisce, diventando un ombra che porta con sé il fantasma dei ragazzi che siete stati e che non tornerete mai più. È l’istante in cui l’infanzia svanisce, l’ultima vibrazione prima della linea d’ombra, il tradimento dell’età adulta che il commediografo britannico Ken Hill ha sintetizzato nel suo adattamento teatrale del Fantasma dell’Opera di Gaston Leroux con la battuta: «L’infanzia è una promessa che non viene mai mantenuta».

Una shadow line che, come in Conrad, prevede l’affidamento di una missione di grande responsabilità a un giovane (in questo caso, a un gruppo di giovani) ma che nel libro di Saviano non diventa il superamento del sentimento di indegnità per il proprio essere, bensì per la sua accettazione. Così i nostri personaggi si ritroveranno a dover compiere l’ultimo passo di valzer nella terra da cui non è più possibile tornare indietro. È la seconda, vorticosa parte del romanzo. Quella in cui, come in un film dei fratelli Coen, si manifesta l’idea ebraica di un’umanità impotente, di una Storia senza senso e di mille storie individuali prive di un finale salvifico. Eppure qualcosa resta: quando il cuore di carne e sangue fa la sua comparsa sulla scena, ecco per Dario, Giovanni, Giuseppe e Rino affacciarsi la possibilità di squarciare con le proprie scelte individuali la fessura da cui far entrare la luce, sconvolgere gli equilibri e far saltare il banco. L’infanzia è finita e il Super Santos non rimbalza più, ma al suo posto c’è un cuore puro che non vuole smettere di battere.