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 2022  novembre 04 Venerdì calendario

Intervista multipla - su "Data di nascita" a cura di Teresa Ciabatti (Solferino)

«Venite bambine, vestitevi come più vi pare e piace, qui nessuno vi giudica. Allora vestirsi da troia non sembrava niente di che», scrive Josephine Yole Signorelli (Fumettibrutti) in Città di angeli , il racconto contenuto nell’antologia Data di nascita (Solferino), in libreria dal 9 novembre. Per la prima volta alle prese con la narrativa pura, Fumettibrutti descrive il night club dove ha lavorato a vent’anni che d’un tratto le ricorda altro: «La moquette grigio blu del camerino, identica a quella del mio asilo da piccola. Così un giorno penso: a parte la coca, qui potrebbe essere l’asilo».

Nessuna categoria, né classificazione. Mai confini, piuttosto continui sconfinamenti. Questo unisce gli scrittori di Data di nascita: Jonathan Bazzi, Ilaria Caffio, Giulia Caminito, Elisa Casseri, Pietro Castellitto, Fabio e Damiano D’Innocenzo, Fumettibrutti, Tommaso Giagni, Mattia Insolia, Ginevra Lamberti. Undici scrittori trentenni che raccontano di una seconda, terza nascita. Si nasce tutti i giorni, ogni volta che troviamo un altro pezzo di noi, ogni volta che ci scopriamo diversi. Non si finisce mai di nascere — dicono gli undici scrittori, diversissimi tra loro, accomunati dalla generazione. Quella generazione per la quale diventare grandi non è stato un passaggio, tantomeno una meta. Bensì una realtà fin dall’inizio, una condizione a cui adattarsi. In un mondo ribaltato loro, i trentenni, dovevano definirsi da soli: lo hanno fatto.

Maschio o femmina?
Jonathan Bazzi: «Mi chiamo Jonathan ma da qualche parte esiste Desirée, la figlia che avrebbe voluto mio padre. E da qualche parte esiste Antonio — il nome che volevano darmi i miei nonni — il ragazzo di Rozzano che si sarebbe fatto rispettare dal mondo». Fumettibrutti: «Io sono femmina dall’inizio: il bambino vestito da principessa che saltava sul tappeto elastico dell’asilo era già Josephine. Lo è sempre stato, solo che gli altri non lo sapevano».

Gli altri chi?
Fumettibrutti: «Maestre, professori, compagni di scuola, ragazzi. Non mamma e papà che lo hanno capito subito. Insomma, io ero femmina a Catania negli anni Novanta».

Quanto la città natale, i luoghi dell’infanzia, hanno condizionato il vostro immaginario?
D’Innocenzo: «Anzio, Cincinnato, Nettuno, Lavinio. Noi siamo cresciuti sul Litorale romano. Con i nostri genitori cambiavamo spesso casa. Il trucco era pagare i primi due mesi di affitto, poi basta. A quel punto si trattava di resistere alle minacce. Nostro padre metteva una sedia davanti alla porta d’ingresso, antifurto fai da te. Se qualcuno provava a entrare, la sedia cadeva, e lui si svegliava. Nella realtà non si è mai svegliato, e siamo stati svaligiati quindici volte».

Ginevra Lamberti: «Io sono nata a San Patrignano dove ho passato i primi mesi di vita. In seguito mia madre è riuscita a portarmi via, mio padre è rimasto. Tra periodi di requie e ricadute mio padre ha vissuto in comunità dall’81 all’85, e nuovamente dall’89 al ‘91. Che fosse dentro o fuori non ha mai smesso di pensarci. Esisteva solo San Patrignano, parlava solo di San Patrignano. Per me bambina è stato come crescere davvero lì dentro. Conoscere tutti. Cercare di non far arrabbiare il grande capo, sperare di renderlo orgoglioso. Ricordo un capodanno o forse un compleanno: la sala mensa gigantesca. Qualcuno aveva regalato al grande capo un colibrì, lui lo fissava. Ricordo lo sguardo, ricordo la gabbietta del colibrì. Se ci ripenso mi fa ancora paura. Quindi non ci ripenso».
Jonathan Bazzi: «Io sono nato e cresciuto a Rozzano, periferia di Milano. Per molto tempo essere di Rozzano è stato motivo di vergogna. Quando mi riaccompagnavano a casa, mi facevo lasciare lontano per nascondere che vivevo nelle case popolari. Il mio desiderio era di andarmene. Solo nel momento in cui mi sono trasferito ho capito che non cambiava niente, rimanevo comunque quello di Rozzano: per sempre in via Giacinti 10, al capolinea del 15. Con la paura che arrivassero i maschi».

Chi sono i maschi?
Fumettibrutti: «Un’invenzione. Come le femmine».
Jonathan Bazzi: «I maschi per me erano quelli che sapevano picchiare. Saper menare a Rozzano era importante, io non ne ero capace. Sapevo guardare la televisione, vestirmi colorato, cantare in cameretta, immaginando di dedicare le canzoni: a tutti quelli che non ci sono e non ci sono stati, ai ragazzi che mi piacciono».

I ragazzi che ti piacciono?
Fumettibrutti: «Ero povera, non mi piacevo, e faticavo a fare amicizia. Per fortuna ho scoperto il mondo delle chat. Lì conoscevo ragazzi. Ci scrivevamo, quindi ci incontravamo. Loro mi portavano a cena, mi regalavano sigarette. Ammetto: spesso mi sono svenduta. Alcune volte finiva male, quando si accorgevano che non ero del tutto femmina, magari m’insultavano: donna mancata, aborto, cagna, schifo. Una notte un ragazzo mi porta nel bosco. Allora io penso al peggio: Ora questo mi piscia addosso. Mi ruba i soldi, e scappa — penso. Al tempo per me era quello il peggio».

Le chat, i siti d’incontro?
Jonathan Bazzi: «Da adolescente facevo ricerche su Gayromeo. Riempivo le caselle: altezza, colore occhi, colore capelli grandezza pene — medium, larga, extralarge. Fino a diciassette anni sono rimasto nel virtuale. Successivamente ho cominciato a incontrare le persone dal vivo: un cartomante della televisione, un principe italo austriaco che lavorava in Vaticano, un marchettaro di piazza Trento con un passato da venditore porta a porta che magnificava la sua penna dai riflessi verdi. Aveva questa penna con cui ipnotizzava. Presentando i prodotti porta a porta girava la penna, girava girava, la gente cadeva in trance, e comprava».

La prima volta?
Jonathan Bazzi: «A vent’anni, con un uomo di quaranta conosciuto su Gayromeo. Mi porta a Linate, lo facciamo in macchina. Sopra le nostre teste gli aerei che partivano e atterravano. Era agosto».
Mattia Insolia: «Primo bacio a diciassette anni. Ero indietro rispetto ai miei coetanei, molto timido. Oppure omosessuale? Me lo sono chiesto. E non sono stato l’unico. È stata una domanda che ha riguardato tanti della mia generazione. Se a letto con una ragazza andava male, il pensiero era immediatamente quello. Nessuno ci ha deriso, ce lo siamo detti da soli: forse ci piacciono i maschi».

Data di nascita? Nel senso di un momento rivelatore di una parte di sé o di una verità improvvisa.
Ilaria Caffio: «Negli anni della scuola ero ribelle, punk, coi capelli colorati. Peccato che la mia fosse una scuola cattolica e che le suore, vedendomi strana, non mi amassero molto. Mi chiamavano “figlia del demonio”, “mani del diavolo”. Io le provocavo. Un giorno entro a fare pipì nel bagno dei maschi, e all’uscita trovo suor Marzia che mi dà un ceffone. Tornata a casa, racconto la cosa a mia madre che si presenta a scuola, e nel corridoio, davanti a professori, suore, e studenti, afferra la suora sfilandole nella colluttazione il cappuccio. La prima volta in vita mia che ho visto una suora senza cappuccio: una donna normale, come tante».

La scoperta della morte?
Ginevra Lamberti: «Andando ogni giorno al cimitero con mia nonna, giocavo con le tombe dei bambini morti. Molte avevano le iscrizioni mezze cancellate, sembravano abbandonate. Dunque io facevo le composizioni di fiori per loro. Pulivo le lapidi, mi sentivo utile».
Ilaria Caffio: «Suor Rosada, la preside della scuola, stava morendo. Viene sistemata in una stanza dove fanno entrare noi studenti una alla volta per salutarla. Poiché erano gli ultimi istanti, doveva essere un saluto veloce. Entravi: buon viaggio, Suor Rosada — e uscivi. Entro io, lei si accorge che sono io, spalanca gli occhi, e prendendomi per un polso dice: gallinaccia. Muore in serata. Era l’8 dicembre».
Pietro Castellitto: «Nella mia mente sono stato sul punto di morire molte volte. In ordine: acufene, cancro, infarto. Visite, controlli. Mai avuto niente. Neanche l’acufene, l’otorino mi ha detto: sei un pipistrello».

La fine dell’innocenza?
D’Innocenzo: «Una notte i ladri, alzando un pezzo di tapparella, infilano in casa nostra un bambino. In quel periodo si usavano i bambini per i furti. Noi dormivano con la porta aperta, letto a castello. A un certo punto vediamo questa figura minuscola nel corridoio. Nemmeno un bambino, uno schizzo di bambino. Ha presente in che modo i bambini disegnano i bambini?».

Crescere.
Mattia Insolia: «Fino a sedici ero minuscolo, un metro e cinquanta. I miei mi portarono da vari dottori, ma niente, non crescevo. Avevo sedici anni e ne dimostravo dodici. Accompagnando mamma a fare la spesa, dicevano: e il bambino cosa vuole? Mio fratello, di tre anni più piccolo, veniva scambiato per il fratello maggiore. Lui cresceva. Eppure io non lo vivevo come un problema. Questo fino al giorno che vado al cinema a vedere Spiderman , e mi accorgo che nelle file davanti ci sono i miei compagni di scuola. Ho pensato: e io ancora qui con mamma e papà. In quell’istante mi sono resto conto di quanto fossi rimasto indietro. Sono cresciuto durante il primo anno di università: da un metro e cinquanta a uno e settantasette. Oggi io e mio fratello siamo alti uguali, solo che lui ci è arrivato per gradi, io di colpo».

Quanto dura la giovinezza?
Elisa Casseri: «Ho sempre pensato che la mia emotività fosse chiusa nel baule di casa dei nonni insieme al corredo. Mia madre ha iniziato a mettere insieme il corredo per me e mia sorella molto presto, eravamo piccole. Alla fine non ce lo ha dato perché non ci siamo sposate — né mai lo faremo, credo. Il primo gennaio di quest’anno ho deciso di fare un atto di rinascita, quasi un rito psicomagico: aprire il baule e liberarmi di tutta la biancheria, venderla, forse bruciarla. Ma quando io e mia sorella abbiamo aperto il baule insieme alla biancheria è venuto fuori il nostro passato fatto di bugie, nascondimenti, provincia, rinunce e cose date troppo come le lenzuola e gli asciugamani costosi, inutilmente costosi e ormai fuori moda. Questo ci ha impedito di portare a termine il rito che ho chiuso oggi con la scrittura. Emotività liberata».

Cos’è l’esperienza?
D’Innocenzo: «Un giorno d’agosto sulla spiaggia di Anzio vedo mio fratello Fabio in mare, poi non lo vedo più, sommerso dai cavalloni. In quel minuto io già mi stavo immaginando una vita senza mio fratello. Mi è bastato un minuto per capire che sarebbe stata una vita impossibile».
Mattia Insolia: «Da bambino, in campagna dai nonni, assistevo all’uccisione degli animali: il vicino che affoga il topo, mio zio che decapita la tortora. Io ero il topo, io ero la tortora, mi sentivo quegli esseri piccoli. Da lì il desiderio di essere altro, qualcosa di grande. Per anni ho sognato di trovare un altro bambino e salvarlo. Vagavo per la campagne alla ricerca di buche e nascondigli alla ricerca di bambini rapiti per liberarli».

Quanti tentativi per diventare ciò che sei?
Fumettibrutti: «A sedici anni ero confusa, non sapevo cosa fossi di preciso. Contribuiva il fatto che mi dicessero: sei più bella di una ragazza — detto con rabbia. Col dubbio che dipendesse dai capelli lunghi, li taglio. Non cambia niente, sento comunque di non essere niente. Cerco allora di essere una ragazza secondo gli standard della società: tacchi alti, non parlare troppo di sé, fare la signorina. Un giorno un ragazzo mi dice: devi rifarti le vene. I maschi hanno le vene in rilievo, le femmine no. Per un lungo tempo ho avuto il complesso delle vene. A diciott’anni ho cominciato la cura ormonale».

Prima di capire cosa volevi essere?
Jonathan Bazzi: «Per un periodo ho lasciato la scuola per fare il parrucchiere. Mi sono iscritto al corso. Mia madre mi ha comprato l’attrezzatura: spazzola, phon, due testine coi capelli per le esercitazioni. Il mio sogno era diventare l’hair stylist di Paola Barale, ma mi ritrovo a mettere bigodini alle teste finte».
Pietro Castellitto: «Io volevo essere calciatore, giocatore di tennis. A vent’anni attore».

Scrivere per te?
Ginevra Lamberti: «In seconda elementare la maestra dà delle parole chiave: stagno, albero, bosco. Gli altri compongono pensieri ameni, io creo il mio primo racconto horror: un fantasma che infesta lo stagno. Questo è stato il mio inizio».
Tommaso Giagni: «A diciott’anni la scrittura mi è esplosa tra le mani. Fino a un certo momento non c’è stato neanche uno sforzo, l’ho lasciata andare. Se mi ha salvato da qualcosa, è dalla frustrazione di cercare un altro talento che non avrei trovato».
Giulia Caminito: «Le bambole sono stati i primi personaggi delle mie storie, e mentre fuori il mondo degli altri si svolgeva, dentro, nella mia stanza, il mondo mio aveva luogo. Per questo le ho abbandonate tardissimo. A dodici anni andavo ancora nei negozi di giocattoli a comprare bambole, ma siccome mi vergognano dicevo di avere una sorella piccola, era un regalo per lei».

Chi sei oggi?
Jonathan Bazzi: «Mi affeziono a chi cerca di annientarmi. Rimango il bambino dimenticato, il peso morto di cui liberarsi».
Fumettibrutti: «La prima volta mi hanno operato male. Il dottore mi disse: l’importante è che sia un buco. Bene: cinque mesi fa mi sono rioperata, e non sono più un buco. Come non sono più tante altre cose: aborto, cagna, schifo. Guaio, trappola. Donna mancata».