Robinson, 5 novembre 2022
"La guerra privata di Samuele, detto Leli", racconto autobiografico, da "La guerra privata di Samuele e altre storie di Vigàta" di Andrea Camilleri (Sellerio)
Uno
È difficili assà che un omo che ha fatto le scoli fino al liceo si possa scordari dei nomi dei sò compagni di classe pirchì ogni matina il profissori, arripitenno la litania dell’appello, quei nomi te li stampava a forza nel ciriveddro. Alla prima ginnasio, i mè compagni si chiamavano, seguenno il rigoroso ordini alfabetico del registro, Ajaimo, Burgio, Butticè, Camilleri, Carmina, Costanza, Crispino, D’Amico, Di Porto... Mi fermo ccà, non per faglianza di memoria, ma pirchì mettiri in fila trentadù cognomi, ché tanti eravamo, alla fini stuffa. Ora si usa che ai compagni ci si arrivolge chiamannoli per nome, ma allura, nel 1937, nni viniva naturali usari sulo il cognome. Il nomi, Michè, Filì, Giurlà, Totò, viniva adoperato tra amici stritti. Io, tempo tri misi, addivintai amico stritto di Di Porto epperciò passammo dal cognomi al nomi: lui mi chiamava Nenè e io lo chiamavo Leli, che era il diminutivo di Samuele.
Naturalmenti, fino dai primi jorni, vinimmo a sapiri i mistieri dei nostri patri, c’era chi era figlio di dottori, di giometra, di avvocato e c’era chi era figlio del capostazioni, com’era il caso di Leli, o figlio del direttori del Demanio, com’era il caso mè. I figli dell’operai, dei piscatori, dei muratura, dei viddrani l’avivamo lassati alla quinta limentari, difficili che a quei tempi prosecutavano lo studdio. Come fu che io e Leli addivintammo amici? La facenna principiò verso la mità del secunno misi di scola, quanno alla prima ora s’apprisintò il novo profissori di religioni, don Angilo Ramazzo, che aveva sostituito a quello vecchio annato in pinsioni. Don Ramazzo era sì un parrino, ma pariva un armuàr, tanto era àvuto e grosso. Aviva ’ na testa enormi con dù occhi a palla pricisi ’ ntifichi a fanali d’automobili. La tonaca era tutta macchiata di lordie varie, dal suco di pasta al giallo d’ovo. Supra al petto portava uno sparluccicante distintivo del fascio. Appena che trasì ’ n classi, tutti nni susemmo addritta sull’attenti, come si usava. Lui ci taliò a longo fermo sulla porta, con una torva spressioni come se l’avivano pigliato a male paroli, po’ fici il saluto romano, si annò ad assittare ’ n cattidra, raprì il registro e accomenzò l’appello.
La regola era che chi viniva chiamato, si doviva susiri, dire « presente! » e assittarisi. Tutto filò fino a quannoarrivò a Di Porto. « Di Porto Samuele » . « Presente! » . E Leli fici per assittarisi. « No, resta in piedi » . Si misi fisso a taliarlo. Po’ spiò: « Tu sei ebreo? » . Leli, che non s’aspittava la dimanna, ’ ngiarmò. « Beh? Rispondi! Sei ebreo o no? » « Non... non lo so » .
« Che significa non lo so? Vuoi fare lo spiritoso? » . « No » . « Va bene, siediti, del tuo caso ne parlerò col preside. Ma tu intanto informati con tuo padre se sei ebreo o no. Sono certo che ti dirà di sì. Del resto, basta guardarti in faccia » .
Tri jorni appresso don Ramazzo, rifacenno l’appello, arrivò ancora a Di Porto. « Presente! » . E Leli accennò a riassittarisi. « Fermo! Ti siedi quando te lo dico io » . Il parrino continuò l’appello. Chiamò l’ultimo cognomi, che era Zuccato, lassanno sempri addritta a Leli. Sulo allura tornò a rivolgergli la parola: « Ti sei informato con tuo padre? » . « Sì » . « Sei ebreo? » . « Sì » . « Dillo ad alta voce » . « Che cosa? » . « Che sei ebreo » . « Sono ebreo » . « Più forte! » . « Sono ebreo » . « Più forte ancora » . « Sono ebreo! » gridò Leli. Ma la voci gli si strozzò. Fu chiaro a tutti che si tiniva a forza dal mittirisi a chiangiri. Ma era propio quello che voliva don Ramazzo, che si mittissi a chiangiri.
« Ripetilo più forte che puoi » . Leli si inchì i purmuna d’aria e partì. « Sono... » . « Basta! » mi sintii diri a voci altissima. E subito appresso averlo ditto, mi scantai. Ma quel basta mi era nisciutodal cori, non avivo potuto tinirlo. « Chi ha parlato? » .
« Io » fici, susennomi e maledicennomi. « Sei anche tu un ebreo? » . « No » . « E tu, che sei cattolico, non lo sai cosa hanno fatto gli ebrei a Gesù nostro Signore? » . « No » . « Sei battezzato? » . « Sì » . « E il tuo parroco non te ne ha parlato? » . « No » . « Ha fatto male. Sono stati gli ebrei ad ammazzare Gesù! Questa razza maledetta ha le mani sporche del suo sangue! Loro lo hanno fatto mettere sulla croce! E ora, non contenti, tramano contro il nostro Duce! D’accordo coi massoni, congiurano contro il fascismo! » . Trimava tutto di raggia. Gli vinni un attacco di tossi. Sputò ’ n terra. E po’, arrivolto a Leli: « Stesse a me, tibutterei fuori dall’aula a calci nel sedere! Ma il preside non ha ancora preso una decisione. Mi spieghi che frequenti a fare l’ora di religione tu che non appartieni alla Chiesa cattolica apostolica romana? Ma intanto... » .
S’interrompì, s’arrivolgì al compagno di banco di Leli. « Tu, Scibetta, alzati e vatti a sedere in quel posto libero nel terzultimo banco » . Scibetta pigliò libri e quaterni e si spostò. « Tu, Camilleri, vatti a sedere al posto di Scibetta. Così in un unico banco abbiamo l’ebreo e l’amico dell’ebreo. Siete proprio una bella coppia! E cercate di rigare dritto perché altrimenti vi stronco! » .
Potevamo non addivintari amici? Fino a quel momento avivamo fatto lezioni di scienze con una supplenti pirchì la profissoressa Zarcuto, la titolari, era stata malata. Po’, ’ nveci, arrivò la signorina ErsiliaZarcuto. Àvuta sì e no un metro e quarantacinco, aviva i baffi, le gammi storte e un paro d’occhiali a funno di buttiglia. S’appresentò vistuta in sahariana, e con la M di Mussolini che le abballava ’ n mezzo alle minne, che era la divisa delle fìmmine fasciste. Nisciuno dell’altri profissori viniva alla scola ’ n divisa, al massimo in certe occasioni si mittivano la cammisa nìvura.
Il primo jorno di lezioni, doppo aviri fatto il saluto romano, ferma sulla porta, spiò a noi che eravamo addritta ’ mpalati sull’attenti, con una voci accussì acuta che spaccava i timpani: « Chi è l’ebreo? » .
“ Bih, che camurria!” pinsai. « Io » arrispunnì Leli susennosi.
La Zarcuto lo squatrò con un’aria schifata come se era un sorci morto e po’, tirata la testa tutta narrè, si voltò di tri quarti e gridò arrivolta verso il corridoio: « Ingrassia!
». Il bidello s’appresentò correnno.
«Comandi!».
«Portatemi una sedia!». «Ma supra alla cattidra la sò seggia c’è già...». «Ne voglio un’altra, subito!». Il bidello s’arricampò con la seggia. « Mettetela in fondo all’aula con lo schienale rivolto verso di me!».
Ingrassia eseguì. «L’ebreo vada a sedersi su quella sedia!». Leli si annò ad assittare. Mittuto accussì, aviva davanti il muro. La profissoressa acchianò nella cattidra. «Seduti. Sono stata informata di questa incresciosa situazione da don Ramazzo. Tu, ebreo, ogni volta che ho lezione qua, prima che io entri in classe, devi andare a sederti su quella sedia e restarci per tutta l’ora. Mi hai sentito, ebreo?».
«Sì» fici Leli, talianno il muro. «T’avverto che, visto e considerato che il preside non riesce a prendere una decisione, io e il camerata don Ramazzo ci siamo messi a rapporto con il federale. Questo sconcio della tua presenza in classe deve finire una volta per tutte!».
La odiai. Mè patre era fascista e marcia su Roma. Perciò quel jorno stisso, mentri stavamo assittati a tavola a mangiari, gli spiai: «Papà, vero è che l’ebrei sunno genti
tinta?».
«Chi te lo disse?».
Gli contai quello che era capitato in classe. Papà storcì la vucca. Faciva accussì quanno non aggradiva. « Ci stanno ebrei boni ed ebrei tinti».
« Ennò, papà, don Ramazzo dici che tutti l’ebrei sunno razza mallitta. E macari la profissoressa Zarcuto dici che...».
«Senti, la facenna è complessa e difficili da spiegari. A tia ’sto compagno ti sta simpatico?».
«Sì, papà». «È un bravo picciotto?». «Sì, papà». « E allura stracatafottitinni di quello che dicino don Ramazzo e la Zarcuto!».
« Non parlari vastaso con tò figlio! » lo rimproverò la mamà.
’Na simanata appresso, mentri che c’era lezioni d’italiano, s’appresentò in classe il presidi Mattaliano. Aviva la cammisa nìvura, signo che si trattava di cosa seria. «Il camerata Daquanno, nostro federale, mi ha impartito con un foglio d’ordini le seguenti disposizioni che vanno eseguite alla lettera. Su richiesta di don Angelo Ramazzo, durante l’ora di religione gli allievi Di Porto Samuele e Camilleri Andrea usciranno fuori dalla classe e attenderanno in cortile la fine della lezione. Su richiesta della professoressa Ersilia Zarcuto, l’allievo Di Porto Samuele durante la lezione di scienze siederà a parte sopra una sedia e non nel banco e con la faccia rivolta al muro».
«No! Non è giusto!» fici ’na voci. Io stisso mi taliai torno torno per vidiri chi aviva protestato. Po’, siccome m’addunai che tutta la classe stava a taliare a mia, accapii che ero stato io. Ma pirchì facivo ’ste minchiate? Che c’era dintra di mia che m’obbligava a rapriri la vucca quanno la meglio sarebbi stato ristarisinni muto? E mentri m’arrivolgivo ’ste dimanne, mi detti io stisso la risposta: pirchì sei un tragediatore nato, mi dissi, pirchì ti piaci fari tiatro.
«Che c’è?» fici il presidi ’mparpagliato. « Io sono cattolico! Apostolico! Romano! Non mi potete privare dell’ora di religione! Non è giusto! Io ho bisogno di sentire la voce di Dio!». Mi portai ’na mano al petto come se avissi arricivuto ’na ferita. «Gesù per me è tutto!». L’ultima frasi mi vinni fora ch’era ’na meraviglia d’intrippitazioni drammatica. I compagni ristaro ’ntordonuti, a vucca aperta. Si fici un silenzio totali. Mattaliano mi taliò ’ ndeciso e po’ disse: « Ne parlerò col camerata Daquanno. Intanto i suoi ordini vanno eseguiti». E sinni niscì.
Due
Il jorno appresso, che alla prima ora c’era religioni, Leli e io, tra l’immidia ginirali dei compagni, ce ne annammo ’n cortile. Eravamo libbiri di fari quello che ci passava per la testa. Siccome in un angolo ci stava ’na palla abbannunata, accomenzammo ’ na partita. Prima accomenzammo ’n silenzio, po’, senza manco addunarinninni, principiammo a fari vociate. Doppo deci minuti arrivò il bidello Ingrassia e ce la sequestrò. «I profissori protestano pirchì state facenno troppu burdello » . Allura nni misimo a jocare a campana. Quanno la campanella sonò la fini della lezioni, trasimmo ’ n classe ma la trovammo completamenti vacante. Tra ’na lezioni e l’altra c’erano cinco minuti d’intervallo e tutti sinni niscivano per annare al cesso, i più per fumarisi ’ na sicaretta ammucciuni, gli altri per passiare nel corridoio e taliare attraver so le porte aperte le compagnuzze che ristavano ’n classe duranti l’intervallo.
«Patre Ramazzo la tabbacchera si scordò» dissi a Leli. Don Ramazzo tiniva sempri a portata di mano supra alla cattidra ’na tabbacchera di ligno. Ogni tanto l’agguantava, la rapriva, pigliava ’na grossa presa, se l’infilava in una nasca, ne pigliava ’ na secunna, se l’infilava nell’altra nasca e subbito appresso si mittiva a stranutari a ripetizioni, accussì forti che addivintava tutto russo ’ n facci come se stava assufficanno. I compagni della prima fila di banchi si calavano sutta per scansarisi dalle spruzzate di sputazza e moccaro a mitraglia che arrischiavano di pigliarli in pieno. Finiti gli stranuti, si soffiava il naso con un fazzolittoni russo e arripigliava la lezioni.
Senza diri né ai né bai, Leli s’avvicinò alla cattidra, affirrò la tabbacchera, se la misi ’n sacchetta.
«Pirchì?». « Boh » . Appena ’ n tempo prima che tornavano i compagni.
Alla seconda ora, che c’era francisi col profissori Di Donato, la porta si raprì e spuntò Ingrassia. « Scusasse, profissori, ma quanno s’assittò vitti se supra alla cattidra ci stava la tabbacchera di don Ramazzo?».
« Non ho visto niente » fici Di Donato siddriato per l’interruzioni. Il francisi per lui era ’na lingua sacra. «Ah, le franzè! Le franzè!» sospirava ogni tanto stasiato, l’occhi arrivolti al celo. « Sentite che musica, ragazzi: la zigall aiant sciantè / tute l’ètè...».
«E vuautri l’aviti viduta?» spiò Ingrassia arrivolto alla classe. E la classe, in coro: «Nooo».
Allura, a voci vascia, addimannai a Leli: « Chi nni voi fari di ’ sta tabbacchera? » . « Ancora non lo saccio. Ci penso e po’ te lo dico».
Nella terza ora avivamo scienze. Leli si susì dal banco e annò ad assittarisi supra alla seggia. La profissoressa Zarcuto trasì tinenno ’n mano la vurzetta, un foglietto e ’ na rivista. Posò vurzetta e rivista supra alla cattidra e annò direttamenti alla lavagna. Pigliò il gessetto e accomenzò a riportari il disigno che aviva nel foglietto.Quanno finì, non ci accapimmo nenti. Addisignati supra alla lavagna ci stavano come sei longhi sirpenti, ognuno fatto da dù linee parallele, che tra loro s’intersecavano. «Sapete cos’è questo?». Era ristata addritta allato alla lavagna.
«Un sirpintaro» fici uno. «Zitto, cretino». Aspittò dù minuti taliannoci con un sorriseddro. «Allora, lo sapete o no?».
«Noo». «Questo è il tracciato delle linee ferroviarie che partono dalla stazione di Montelusa».
Fici ’na pausa. « La stazione che dipende dall’ebreo Di Porto, padre del vostro compagno Samuele».
Ma indove voliva annare a parare? La seguivamo attentissimi. Signò col gessetto un punto indove dù sirpenti s’intersecavano.
«Qui, dove queste linee s’incrociano, c’è uno scambio che permette a un treno di passare da un binario all’altro. Se lo scambio non viene azionato a tempo, mi sapete dire che succede?».
«Che il treno resta sullo stesso binario» fici Trifella, il primo della classe che stava assittato al primo banco.
« Bravo! E questo può provocare uno scontro con un altro treno che procede in senso inverso. Chiaro?».
«Sììì». «Ora vi faccio notare che a dare gli ordini agli addetti agli scambi è il capostazione».
«No» fici ’na voci. Stavota fui sicuro di non essiri stato io a rapriri vucca. «Chi ha parlato?». «Io» arrispunnì la voci dal funno della classe. Era stato Leli, sempri voltato verso il muro. « Ah, sì? Secondo te le cose stanno così? E chi li dà gli ordini? » spiò, a sfida, la Zarcuto.
« Il capomanovratore » arrispunnì Leli senza mai cataminarisi. Sintimmo ’na speci di vociata di maiali scannato. Era la profissoressa che ridiva sarcastica.
«E da chi dipende il capomanovratore?». «Dal capostazione» fici Leli. La Zarcuto parse nisciuta pazza di colpo. Si misi a fari voci e la sò voci faciva trimari i vetri delle finestre e dintra alle nostre oricchi provocava un prurito irresistibbili.
«Lo vedete com’è fatta questa razza maledetta?
Combinano il disastro, il deragliamento, centinaia di morti, migliaia di feriti e hanno la faccia tosta di dare la colpa agli altri!».
« Scusate, ma quand’è successo che il treno deragliò?» spiò, ’ncuriosito e scantato, un compagnuzzo cheogni matina, per viniri al ginnasio, pigliava il treno.
«Non è ancora successo, ma può succedere! Se lasciamo che gli ebrei abbiano ancora posti di responsabilità, altro che un semplice deragliamento! Quelli sono pronti a sabotare centrali elettriche, dighe, porti, collegamenti telefonici, tutto, pur di danneggiare l’Italia fascista di Mussolini! Guarda tevi dagli ebrei! Sono la gramigna da estirpare! Sono peggio della peste!».
Acchianò ’ n cattidra, pigliò la rivista, ce l’ammostrò. « Questa rivista, che si chiama “ Quadrivio”, dovrebbe trovarsi nella casa di ogni italiano. Ora vi leggo un articolo che spiega cosa stanno facendo i tedeschi per difendersi dagli ebrei e mantenere pura la razza » . Nni liggì un papello che durò per tutta l’ora di lezioni. Alla fini eravamo tutti mezzo addrummisciuti.
«Papà, come mai ’n casa non arriva la rivista “Quadrivio”?». «Non mi ci vosi abbonari». «E pirchì?». « Pirchì ogni tanto qualichiduno ci scrivi minchiate grosse».
«Non parlari vastaso con tò figlio!» fici la mamà. «Oggi la profissoressa Zarcuto liggì ’n classe un articolo che diciva come in Germania s’addifennino dagli ebrei».
«La profissoressa Zarcuto è un pirito gonfiato d’aria». «Ti dissi di non parlari vastaso con tò figlio!» s’arraggiò la mamà.
« Stamatina sono arrivato in classe prima di tutti. Trasii nella scola dalla porta di darrè, quella che serve per i bidelli e per le fìmmine che venno a puliziare » fici Leli appena che mi vitti.
«Pirchì?». «Riportai la tabbacchera». La tabbacchera di don Ramazzo era tornata al posto sò.
«O meglio» prosecutò Leli «sono state le fìmmine delle pulizie a mittirla supra alla cattidra».
«Ma tu indove l’avivi mittuta?». « ’ Ncastrata tra la pidana e il muro. Le fìmmine, spostanno la pidana, sinni addunaro».
«Ma oggi però non abbiamo religioni». «Meglio». «Che ci facisti?» «Ci misi ’na miscela». «Di che?». «Pipironcino e pipi nìvuro macinati fitto». «Ma accussì sinni adduna dall’odori!». «No, ci lassai dintra tanticchia di tabbacco». L’altri compagni erano ’ntanto arrivati. Po’ trasì il profissori
Di Donato, s’assittò.
«Che è ’sta roba?».
«La tabacchiera di don Ramazzo» fici pronto Trifella. «Vai a chiamare Ingrassia». Trifella niscì e tornò col bidello. Di Donato pigliò la tabbacchera e la pruì a Ingrassia. « Ridatela a don Ramazzo». «Si vidi che l’attrovaro le fìmmine delle pulizie» commentò il bidello. Dù orate appresso successi ’na speci di finimunno. Dal corridoio arrivaro voci concitate, una o dù biastemie d’Ingrassia, passi di genti che corriva, porte che sbattivano. Noi, che stavamo facenno taliàno, appizzammo l’oricchi per accapire quello che stava capitanno.
«Va’ a vedere che succede» disse il profissori a Trifella. Quello tornò doppo cinco minuti.
«Stanno portando a don Ramazzo all’ospedale». «Perché?». « Mentre faceva lezione in seconda B, si è fatto una presa di tabacco, ha cominciato a sternutire e non riesce più a fermarsi. Non ce la fa a respirare».
«Continuiamo la lezione» fici il profissori. «E uno» mi disse a voci vascia Leli. Lo taliai ’mparpagliato.
«E chi sarebbi il secunno?».
«La secunna» mi corriggì. « Alla prossima lezione » fici la profissoressa Zarcuto « andremo in laboratorio. L’ebreo Di Porto, dato che deve stare sempre con la faccia rivolta verso il muro, non potrà vedere gli esperimenti che farò e quindi è inutile che assista alla lezione».
«Ma se poi vengo interrogato su queste lezioni, come posso rispondere?» addimannò Leli al muro.
«T’arrangi». Il laboratorio della scola era stato ricavato da ’ na speci di cantina e ci s’arrivava scinnenno ’ na scala. Era un cammarone stipato d’apparecchiature e di scaffali, con ’na sula finestra àvuta, a livello del cortile, fatta a vucca di lupo, col vitro smerigliato e tinuta sempri mezza aperta. Alla prima lezioni in laboratorio ’ n’addivirtemmo assà. La Zarcuto ci fici vidiri un doppio cono che posato supra a uno scivolo ’nveci di scinniri acchianava, e come, dintra a un tubo di vitro privo d’aria, ’na foglia e ’ na petra arrivavano a toccari il funno ’ nzemmula, cadenno alla stissa vilocità.
«Piccato che non ti ha fatto assistiri alla lezioni» dissi a Leli. «Era ’ntirissanti».
Leli arridacchiò. «Ma io ho assistito lo stisso». «E come?». « Stinnicchiannomi ’ n terra, ho taliato dalla finestra. Voi non mi potivate vidiri, ma io vidivo tutto. L’ho fatto pirchì la Zarcuto mi voli fottiri interrogannomi supra a quello che ha fatto in laboratorio. Ma sarò io a fottiri lei».
Tre
Patre Ramazzo tornò a fari lezione nella nostra classe la simana appresso. La prima cosa che notammo fu che aviva cangiato tabbacchera, ora sinni portava appresso una d’argento con il coperchio tutto ’nciso a sciuri e a foglie.
«Che bella tabacchiera!» sclamò Trifella che era sempri pronto ad arruffianarisi.
«Quella di legno devo averla lasciata in classe quando m’hanno portato in ospedale, ma non la trovo più» spiegò il parrino. Certamenti i medici gli avivano spiegato la scascione dei tirribbili stranuti che a momenti lo facivano moriri, ma lui non aviva addenunziato la facenna al presidi, masannò quello, a quest’ora, avrebbi aperto un’inchiesta. Raprire inchieste era la sò passioni. Era squasi sicuro che patre Ramazzo sospittava che era stato Leli a fargli lo sgherzetto del pipironcino, e lo si vidiva dal modo torvolo col quali lo taliava ’n continuazioni, ma non potiva fari nenti, non potiva accusarlo senza provi.
« Questo ha capito che sono stato io e sta circanno il modo di farimilla pagari» mi disse Leli.
«Che vuoi fari?». «Sto pinsanno che forsi la migliori difisa è l’attacco». Ma Leli non fici a tempo ad attaccari per primo a don Ramazzo. ’Na matina, mentri c’era francisi, trasì il preside che aviva appresso il parrino. Il preside era nìvuro ’n facci, mentre don Ramazzo aviva stampato un sorriso da squalo. «Professor Di Donato, vi prego di volermi scusare, ma la lezione è momentaneamente sospesa». Di Donato lo taliò sdignato, si susì offisissimo, pigliò il registro e niscì lassanno la porta aperta.
«Trifella, vai a chiudere». Po’ il presidi, sempri cchiù ’nfuscato, acchianò supra alla predella, ma non s’assittò in cattidra.
«Di Porto, in piedi». Leli si susì. «Stamattina, per uscire da casa, cosa ti sei messo?». Che dimanna era? Che viniva a significari? Lo stesso Leli, che arrinisciva a mantiniri il sangue friddo in ogni occasioni, parse ’mparpagliato.
«L’impermeabile». «Dov’è?». «Nel corridoio». I cappotti, l’impermeabbili, le sciarpe, i cappelli, prima di trasire ’ n classe, vinivano appinnuti nell’attaccapanni che stavano lungo le pareti del corridoio.
«Vallo a prendere». Leli niscì, tornò con l’impermeabbili che era vecchioe malannato. Lo tiniva a vrazzo tiso, non sapenno indove mittirlo. «È questo?» spiò il preside a don Ramazzo. Il parrino fici ’nzinga di sì con la testa.
« Lascialo sulla cattedra e torna a posto. Ma resta in piedi».
Passannomi davanti, Leli mi taliò ’nterrogativo. Io allargai le vrazza. Nisciuno accapiva che significava quel tiatro. «Poco fa» principiò il presidi «don Ramazzo, passand per il corridoio, si accorse che questo impermeabile era caduto per terra. Si chinò per riappenderlo e vide che da una delle tasche fuoriusciva una tabacchiera. Questa».
E fici ’nzinga al parrino che tirò fora la mano dalla sacchetta ammostranno la tabbacchera di ligno che diciva d’aviri persa. « Don Ramazzo ricorda perfettamente che, quando venne trasportato in ospedale, lasciò sulla cattedra la tabacchiera. Qualcuno della seconda B deve averla presa e consegnata all’allievo Di Porto » . E po’, arrivolto a Leli: « Che volevi fartene? Riempierla nuovamente di peperoncino e pepe nero?».
In un vidiri e svidiri accapii che tutta la facenna era una grannissima farfantaria del parrino per vinnicarisi di Leli. Accomenzai a sudari pinsanno che sarebbi stato difficili assà per il mè amico tirare fora i pedi da quel trainello. Addecisi d’annargli in aiuto. Mi susii di scatto. Il presidi mi taliò strammato.
«Che vuoi?». « Come ha fatto don Ramazzo a sapere che l’impermeabile appartiene a Di Porto?».
«E tu chi sei, l’avvocato difensore di Di Porto?» spiò il preside ironico.
E si voltò a taliare a don Ramazzo. Fu evidenti macari a lui che la mè dimanna aviva mittuto in difficortà al parrino. Il quali, pigliato alla sprovista, accomenzò a balbettari: «Ma... ma... quaqualche vovolta gliel’ho vivisto...».
«È mio» tagliò Leli.
Mi riassettai. Ero arraggiato per quello che aveva ditto Leli, ma se voliva farisi ghittari fora dalla scola, patronissimo.
«Mia madre» prosecutò Leli «ci ha cucito una targhetta col mio nome all’altezza del collo » . Il presidi pigliò l’impermeabbili. Era vero, la targhetta c’era e vinni ammostrata a tutta la classe. Patre Ramazzo respirò, sollevato. «Allora» ripigliò il preside «perché avevi in tasca la tabacchiera di don Ramazzo?».
«Questo è il problema» fici Leli. «Il mio impermeabile ha le tasche finte. Non ci si può nemmeno infilare la mano ». Il presidi fici la prova, non arriniscì a mittirici dintra manco la punta delle dita. Ammaravigliato, taliò nuovamenti il parrino come a spiargli spiegazioni. Don Ramazzo, ’ ntanto, era addivintato russo ’ n facci come un milone d’acqua. « Io so solo che... » . Ancora ’ na vota, Leli gli pruì la cima per non affocari. « Probabilmente » disse « la tabacchiera si trovava già lì da chissà quanto tempo quando il mio impermeabile ci è caduto sopra». « Già! Sarà stato senz’altro così » fici don Ramazzo aggrappannosi
alla cima.
« Va bene, meglio così. L’incidente è chiuso » disse il presidi che ammostrava ora ’ na gran gana di nescirisinni dall’aula. «Trifella, avverti il professor Di Donato che può riprendere la lezione » . Don Ramazzo non tornò cchiù nella nostra classe.
Doppo ’na quinnicina di jorni senza lezioni di religioni, al posto sò arrivò patre Michele Lauricella. Sissantino, rusciano, aviva ’na panza accussì grossa che per passari dalla porta doviva mittirisi di traverso. S’assittò, raprì il registro, accomenzò l’appello. Po’ arrivò a Leli.
«Di Porto?». «Presente!». «Resta in piedi». « Bih, che camurria! » disse tra i denti Leli. « Accomenzamo da capo?».
«Tu sei il ragazzo ebreo?». «Sì». «A casa vostra tua madre la fa la torta di pesah?». «Sì». « La prossima volta che la prepara, me ne porti una bella porzione?».
«Gliela faccio fare apposta» disse Leli. Noi ristammo tanticchia strammati. «Le religioni dividono, ma la tavola unisce» ci spiegò il parrino. Po’ vinni il tempo di cannalivari e la scola parse trasformarsi in un campo di battaglia, tanto erano i botti, i tric trac, le miccette che splodivano in continuazioni. Ci furono dù o tri firiti leggeri, più che altro nelle fila degli stessi bombardieri ai quali i petardi scoppiarono tra le mano. I primi delle classi non se la passaro bona in quelle jornate, erano nel mirino. Appena che trasivano nella scola, pariva che caminavano supra a un campo minato, a ogni passo erano circonnati da lampi e botti. Un tric trac, lanciato con mano sicura, colpì il basco di Trifella e glielo ’ ncendiò. I bidelli s’affannavano circanno di sorprenniri i bombardieri, ma non arriniscero a pigliarinni manco uno.
Il presidi passò classi classi a minazzare sei in cunnutta e bocciature varie, senza ottiniri nisciun effetto. La profissoressa Zarcuto ci annunziò che nell’ultima lezione prima delle vacanze di cannalivari avrebbi fatto un esperimento assà sdilicato per il quali era nicissaria assoluta concentrazioni. « Per fortuna » disse « gli scoppi quassotto arrivano molto attutiti, altrimenti non me la sarei sentita di farlo».
« Ci può dire di cosa si tratta? » spiò Trifella con la facci di chi si senti sempri a digiuno di novi ’nsignamenti.
«Ce l’hai il libro?». «Certamente». «L’esperimento è descritto a pagina 32». Naturalmenti ci eravamo pigliati di curiosità e annammo tutti a vidiri a pagina trentadù. Quella pagina annò a taliarisilla di cursa macari Leli che non mancava d’assistiri, sempri ’ nvisibbili darrè alla finestra, alle lezioni in laboratorio della Zarcuto.
Po’ vinni il jorno dell’esperimento. Arrivata a mità della sò ora, la profissoressa annò a rapriri un armadio, pigliò ’ na boccetta dintra alla quali ci stava ’ na sustanzia che pariva ’na gazzosa e, con gesti pricisi ’ntifici a quelli di un parrino che recita la missa, la posò supra alla cattidra. Doppo tornò narrè, tirò fora dall’armadio un tubbiceddro di vitro e lo mise allato alla boccetta. Supra alla cattidra ci stavano già ’ na buttiglia china d’acqua e un bicchieri vacante. Li aveva portati il bidello al principio della lezioni. Tutta la classe stava col respiro sospiso.
«Dentro a questa boccetta c’è acido cloridrico» disse la profissoressa. « E questo tubicino di vetro che ho in mano si chiama pipetta. L’esperimento consiste nel mutare in acqua e sale l’acido cloridrico. Basterà che io metta in bocca un po’ d’acqua e, attraverso la pipetta, la trasferisca all’interno della boccetta contenente l’acido. Come vi è facile capire, devo badare bene a espirare, perché se inspirassi, berrei l’acido».
«C’è pericolo di morte?» spiò, ansioso, il solito Trifella. La Zarcuto sorridì. «Di morte no, ma potrei ustionarmi. Per questo vi prego di stare immobili durante l’esperimento e di non fare rumori improvvisi. D’accordo?».
«D’accordo» fici ’n coro la classe.
La profissoressa s’assittò. Versò nel bicchieri tri dita d’acqua, si portò il bicchieri alla vucca, lo svacantò, lo posò. Le guance le erano addivintate paffutelle, ma nisciuno osò manco sorridiri. Po’ s’infilò tra le labbra la pipetta. Appresso avvicinò a sé la boccetta. Prima di travasare l’acqua soffianno, isò l’occhi a taliarici come a raccomannare ancora ’na volta il silenzio assoluto e quindi ’nfilò la pipetta ’n mezzo all’acito.
Aviva appena accomenzato a soffiari che un’esplosioni tirribbili ci assordò a tutti. Le ante di dù o tri armadietti si spalancaro, si sintì rumorata di vitri rotti. E tutti satammo dal banco, facenno ’na vociata di scanto, assorti com’eravamo a taliare l’esperimento. Qualcuno, da fora, aviva lanciato un petardo dintra all’aula. Pinsai ’mmidiato che era stato Leli. Po’ si sintì la voci di Trifella: «La professoressa! Oddio, la professoressa!». La Zarcuto, con le dù mano sirrate attorno alla gola, stava facenno ’na speci di balletto. Ghittava ’na gamma di ccà e una di ddrà, scomposta, e ogni tanto firriava supra a se stessa come ’na trottola. Era addivintata viola ’n faccia, le ammancava il respiro. Doppo, di colpo, cadì in terra, assintomata.
Mentri mezza classe ristava apparalizzata dallo scanto, l’altra mità corrì fora in cerca d’aiuto. Io ero nisciuto ’n testa a tutti e granni fu perciò la mè meraviglia quanno vitti a Leli nel corridoio che parlava col bidello. Allura non era stato lui?
«Che fu?» mi spiò ’nfatti. «La professoressa Zarcuto sta molto male» dissi al bidello mentri vinivo raggiunto dagli altri. Il bidello s’apprecipitò e i compagni appresso a lui. «È scoppiato un petardo mentre che la Zarcuto...» principiai a contare a Leli.
«Davero?» fici lui. Il tono non mi persuadì. Lo taliai nell’occhi. Ricambiò la taliata, sorridenno appena.
Quattro
Naturalmenti il presidi raprì un’inchiesta ’mmidiata. Dalla quali però subbito Leli vinni escluso pirchì il bidello Ingrassia tistimoniò che quanno io gli comparsi davanti per dirgli che la Zarcuto stava mali, lui già da qualichi minuto liticava con l’allievo Di Porto. Anzi, arrifirì il dialogo che aviva avuto con Leli.
«Indove stai annanno?». «A cesso». «Aspetta l’intirvallo». «Ma se io devo stare fora dalla classe, che bisogno c’è che aspetto l’intervallo?».
«A cesso ci si va nell’intirvallo o col primisso dei profissori ».
«Ma come posso spiari il primisso se non sono in classe? ». A ’sto punto ero arrivato io. Il petardo di grosse dimensioni, di conseguenzia, era stato scagliato dintra alla classe da qualichi altro studenti.
Quanno niscemmo dalla scola, Leli mi spiò se potiva accompagnarimi a pigliare la correra.
«Come facisti?» gli addimannai. «Era un pitardo a miccia» m’arrispunnì. «E io m’accattai quello con la miccia cchiù longa».
La Zarcuto tornò ’n classe doppo ’na decina di jorni. Ma non s’azzardò a fari cchiù lezioni in laboratorio. Quanno dettiro le pagelle, in quella di Leli, alla voci «materie scientifiche » non ci stava signato nisciun voto. Dù jorni appresso, mentri avivamo scienze, la porta si raprì e comparse il presidi con un omo vistuto in pirfetta divisa fascista. L’omo aviva un’ariata da gerarca abbituato al comando, faciva soggezioni. Salutò col saluto romano e po’ s’impalò con le mano supra ai scianchi.
«È mè patre» mi spiegò addivirtuto Leli. «Professoressa Zarcuto» fici il presidi. «È vero o no che l’allievo Di Porto, come da voi sostenuto in consiglio dei professori, è così impreparato da non poter essere nemmeno classificato?».
«Siccome non ha assistito nemmeno a una delle mie lezioni in laboratorio, sono assolutamente certa che non...».
«Ma voi l’avete interrogato o no?». «Non ho ritenuto che...». «Esigo» fici l’omo con una voci pricisa ’ntifica a quella ’mpiriosa di Mussolini mentri il presidi ’ncassava la testa tra le spalli «che mio figlio sia interrogato immediatamente! Non è ammissibile che nella nuova scuola creata dalla rivoluzione fascista un giovane sia...».
«Va bene, va bene» fici il preside. «Professoressa Zarcuto, interrogatelo!». La Zarcuto era addivintata viola, come quel jorno che era ristata assufficata dall’àcito, ma dovitti chiamari alla cattidra a Leli. L’interrogazioni durò chiossà di mezz’ora, Leli non sgarrò ’na risposta. Quanno la Zarcuto disse che abbastava, la classe scoppiò in un applauso. Il patre di Leli, senza diri ’na parola, rifici il saluto romano sbattenno i tacchi e niscì assicutato dal presidi che tentava di scusarisi.
Un jorno Leli mi spiò: «Pirchì non facemo i compiti ’nzemmula?». «E come faccio? Io, appena finisce la scola, corro a pigliare la correra per Vigàta che parte all’una e mezza».
«Veni a dire che avverti a tò matre che pigli la correra delle cinco e mezza. Mangi con noi, facemo i compiti dalle tri alle cinco e po’ tinni torni a Vigàta».
«Tò patre mangia con noi?». «Certo». Ristai dubitoso. Quell’omo che parlava come a Mussolini mi faciva suggizioni assà. Ma Leli ’nsistì. Mè matre midette il pirmisso. Ma quanno niscemmo dalla scola e ci avviammo verso la stazioni, non me la sintii cchiù. E lo dissi a Leli.
«Pirchì?» mi spiò. «Tò patre... non t’offinniri, Leli... ma tò patre...». «T’arrifirisci per caso a come si è apprisintato alla Zarcuto? ».
«Sì». Leli abbassò la voci. Mi s’avvicinò squasi naso con naso. «Lo sai mantiniri un sigreto?». «Certo». «Giura». «Ammazzatu morirò se il sigreto rivelerò». «Tutta ’na farsa è stata». «Che farsa?». «Mè patre ogni tanto s’addiverti a imitari a Mussolini. Lo fa alla perfezioni».
«Ma la divisa però...». «Quali divisa e divisa! Lui non ce l’ha. Era quella del vicicapostazioni che, dato che sò mogliere è partuta, l’aviva data a mè matre per mittirla a posto. Papà la vitti ’n casa e fici ’sta bella pinsata».
Allucchii. «Perciò non è fascista?». «Ma quanno mai!». Ero ’ntronato. Non cridivo a quello che avivo appena sintuto. Davero esistiva un omo capace di tanto?
«Benvenuto nella nostra casa» mi disse il capostazioni appena che mi vitti trasire. La sò vera voci assimigliava a quella di mè patre. Mi fici ’na carizza supra ai capilli. «Assettati ».
Va’ a sapiri pirchì, tutto ’nzemmula, mi sintii orgoglioso di stari a tavola con loro. La Zarcuto, a scascione della malafiura fatta davanti a tutta la classe, per ordini del presidi fu obbligata a fari tornare ad assittare a Leli nel banco, nel posto allato a mia. E tutto finalmenti parse arrisolto. Po’ l’anno scolastico ’37-38 finì, tutti e dù eravamo stati promossi epperciò duranti la stati ristammo siparati pirchì Leli annò a passare le vacanzi in Calabria, nel paìsi di montagna indove era nasciuto sò patre e indove c’erano i nonni. Circò di farimillo vidiri supra alla carta giografica, posò il dito supra a ’na zona acchiamata Sila ma il nomi del paìsi non ci compariva, doviva essiri fatto da quattro case.
Quanno, passate le vacanze, la scola raprì, Leli e io pigliammo posto nello stisso banco. I profissori non erano cangiati. Ma alla prima lezioni della Zarcuto nni ficimo pirsuasi che la profissoressa non sulo non aviva cangiato pinioni su Leli, ma anzi aviva ripigliato quell’atteggiamento sfottenti che per tanticchia era stata obbligata a mettiri da parti. ’Nfatti, appena assittata ’n cattidra, tirò fora ’na rivista e ce l’ammostrò. «Questa rivista si chiama
La Difesa della razza.
Prima di ogni lezione, ve ne leggerò un articolo perché sappiate che abisso d’infamia e di degenerazione sono gli ebrei».
Mentri la Zarcuto liggiva un papello nel quali si diciva come la razza italiana non doviva lassarisi ’nquinare da quella ebraica, la mano di Leli, squasi a circari conforto, si posò supra alla mè gamma. Allura io posai la mè mano supra alla sò. Ristammo accussì fino a quanno la liggiuta dell’articolo non finì.
«’U papà è preoccupato assà» mi disse un jorno Leli. «Pirchì?». «Pare che Mussolini sta facenno ’na liggi che sarà la nostra fini».
A tavola, lo spiai a mè patre. «Vero è che Mussolini sta facenno ’na liggi contro all’ebrei?». Non m’aspittavo ’na sò reazioni accussì violenta. «Vero è! ’Sto grannissimo testa di minchia di Mussolini s’è lassato persuadiri dal sò amiciuzzo Hitler! L’ebrei sunno pricisi ’ntifici a noi! Che cazzo di differenza c’è? E ’nveci tirano fora ’sta sullenni minchiata della razza che è tutta ’na strunzata ’nvintata dai nazisti che sunno genti con la quali è meglio non avirici a chiffare!».
Ne aviva ditto parolazze ’u papà, eppuro quella volta la mamà non lo rimproverò. Verso la fini di novembri la profissoressa Zarcuto s’appresentò ’n classe e raprì la solita rivista nelle dù pagine centrali che erano tutte addisignate. «Questi disegni illustrano efficacemente i provvedimenti presi dal consiglio dei ministri nei confronti degli ebrei. Ve li leggo. Essi non potranno più prestare servizio militare, esercitare l’ufficio di tutore, essere proprietari d’aziende interessanti la difesa nazionale, essere proprietari di terreni e fabbricati, avere domestici ariani. Inoltre non vi possono più essere ebrei nelle amministrazioni militari e civili, nel partito, negli enti provinciali e comunali, negli enti parastatali, nelle banche, nelle assicurazioni, nelle scuole. Questo significa, allievo Di Porto, che tuo padre non potrà più lavorare da nessuna parte e che finalmente non vedrò più davanti a me la tua orrenda faccia di ebreo».
Alla nisciuta dalla scola, Leli m’accompagnò alla correra. Ma non arriniscemmo a parlari di nenti. Sulo al momento di salutarinni, gli spiai: «Domani veni a scola?».
«Non lo saccio». Quanno la correra partì, mi voltai. Leli era fermo, mi salutava col vrazzo isato, agitanno la mano. L’indomani non vinni a scola. Alla fini delle lezioni, m’apprecipitai alla stazione. Tuppiai alla porta dell’abitazioni, nisciuno mi vinni a rapriri. Spiai a uno delle ferrovie e quello mi disse che il capostazioni con la famiglia sinni era partuto quella matina stissa, ma non sapiva per indove. E io non seppi cchiù nenti di Leli. Questa, di lui che mi saluta, è l’immagine che mi sono portata appresso per anni e anni. E non scoloriva mai, pirchì le notizie che accomenzaro a circolare subbito appresso la fini della guerra sul massacro di milioni e milioni d’ebrei nei campi di sterminio tedeschi me la tiniva sempri viva. E una volta che in un ginematò vitti ’na ruspa che spalava cintinara di cataferi dintra a uno di questi campi chiuii l’occhi scantannomi assurdamenti d’arriconosciri a Leli in uno di quei pupi peddri e ossa che non pariva che potivano essiri stati un jorno òmini e fìmmine.
Ma c’erano volte che mi facivo coraggio. «No» mi dicivo. «Leli di sicuro si sarà arribbillato, avrà circato di scappari. E macari l’avranno sparato. Sempri meglio che moriri di fami jorno appresso jorno dintra a uno di quei campi ». Po’, com’è forsi giusto che succeda, quell’immagini accomenzò a sbaporare. Non il ricordo, l’immagini. Quarantadù anni appresso, trasenno ’na sira in un tiatro di Roma indove si rappresentava una commedia con la mè regia, la cassera m’indicò un omo assittato supra a un divanetto. «Quel signore è da mezz’ora che l’aspetta».
Era uno della mè stissa età, vistuto aliganti. Mi ci avvicinai.
«Voleva parlarmi?».
L’omo si susì. «Lei è Andrea Camilleri, detto Nenè, nato a Porto Empedocle?». Aviva un accento stranero.
«Sì. E lei chi è?». «Sono Samuele Di Porto, detto Leli». Ristammo immobili. Non arriniscivamo a cataminarici. Ci taliavamo occhi nell’occhi e vidivamo l’uno dintra alle pupille dell’altro passari la sorprisa, la commozioni, la gioia. Ci assittammo squasi contemporaneamenti pirchì le gamme ci erano addivintate di ricotta e non ci riggivano addritta. Po’ Leli posò ’na mano supra al mè ginocchio e io misi la mè mano supra alla sò.