la Repubblica, 6 novembre 2022
Spazzatura sovietica
Se ci penso, il posto più ecologico e meno ecologico in cui ho vissuto è la Russia. Quando ci sono stato per la prima volta, la Russia era ancora una delle repubbliche che componevano l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Era il marzo del ‘91. Nella Mosca del 1991 il cartello che ho visto più spesso, attaccato ai telefoni pubblici, ai distributori di bevande, era Ne rabotaet, “Non funziona”, non funzionava quasi niente, e il problema ecologico, allora,in Unione Sovietica, non eradi moda. All’epoca fumavo, e i russi con i quali abitavo non volevano che si fumasse in casa, allora a fumare andavo sul pianerottolo. Che non era un posto molto bello, c’era una cosa che si chiamava musoroprovòd.Condotto di scarico dell’immondizia, significa, che era un condotto che si faceva tutti e diciassette i piani del palazzo dove abitavo e mandava un odore suo particolare che era un odore che non c’era un gran buon odore, nel pianerottolo dov’ero io, all’inizio degli anni Novanta, in un condominio della periferia di Mosca, dove fumavo delle sigarette bulgare che non erano delle gran sigarette, devo dire, e una sera, ero lì, sul pianerottolo, con intorno l’odore del condotto di scarico dell’immondizia, un’immondizia sovietica, un odore tutto suo particolare, e avevo nella testa delle domande del tipo: «Ma perché sto fumando delle sigarette bulgare? Ma non facevo prima a portarmele dall’Italia?», e si era aperta la porta dell’ascensore e era uscito dall’ascensore un signore con il suo cappotto grigiofumo, il suo cappello di pelo grigiofumo, la sua borsa di fintapelle grigiofumo, i suoi resti di neve grigiofumo sulle spalle, era aprile, nevicava, erano le sei di sera, e questo burocrate sovietico di mezz’età tornava dall’ufficio, probabilmente, e aveva un fascino pari a niente, uno dei pochissimi russi con un carisma nullo che avevo incontrato fino a quel giorno, era tipo il mio dodicesimo giorno in Russia, e lui era uscito dall’ascensore, era arrivato alla porta del suo appartamento, l’aveva aperta con la sua chiave e, da dentro, era venuta la voce di un bambino che diceva Pàpa! Che significa Babbo. E aveva un modo così bello, così amorevole, era così contento, che fosse tornato suo babbo, che io mi ricordo che lì, il momento forse meno interessante, più basso del mio primo viaggio in Russia, era stato trasformato, da una parola, nel momento in cui, per la prima volta nella mia vita, avevo pensato che forse poteva valere la pena di fare un bambino. Che poi sarebbe stata una bambina. La prima volta, nella mia vita insignificante, che ho desiderato avere un figlio, che poi sarebbe stata una figlia, è stato per via di un significante russo: Pàpa. E questo aneddoto con l’ecologia non c’entra tantissimo ma mi piace così tanto che appena posso lo racconto. C’entra invece il fatto che i rifiuti che passavano per ilMusoroprovòd andavano a finire in un cassone di metallo e poi li bruciavano. Lì, sotto il condominio. Tecniche di smaltimento sovietiche. I sovietici, in molte cose erano all’avanguardia, son stati i primi a andare nello spazio, nel trattamento dei rifiuti erano rimasti un po’ indietro. Però, nello stesso periodo, c’eraanche un processo contrario. Anni dopo, nel 2008, sono stato, a Milano, alla prima personale italiana dell’artista russo Vladimir Archipov, intitolata Design del popolo, come il libro che Archipov aveva pubblicato col sottotitolo 220 invenzioni della Russia post–sovietica. Nel 1994 Archipov aveva visto un attaccapanni fatto con un vecchio spazzolino da denti al quale erano state tolte le setole e che era stato piegato su una fonte di calore. Riconoscendo nell’attaccapanni lo spazzolino da denti, Archipovha avuto «una specie di illuminazione», e gli erano tornati in mentetanti altri oggetti simili che aveva visto a casa di parenti, amici o conoscenti. Ha pensato che sarebbe stato interessante raccoglierli e farne una specie di collezione, e ha cominciato a chiederli in giro. Dopo «furono gli oggetti a cercarmi, e le persone che erano rimaste affascinate dalla mia idea iniziarono a chiamarmi, e continuano a farlo, per dirmi quando e dove avevano visto qualcosa di simile». Quasi sempre i proprietari degli oggetti, cedendoli, raccontano come e perché li hanno costruiti, e il libro è fatto così, una fotografia dell’oggetto, la sbobinatura della testimonianza e, delle volte, una piccola fotografia in bianco e nero dell’ex proprietario. Qualche volta, invece, la fotografia dell’intervistato non c’è, come nel caso di Vladimir Antipov, che è il responsabile della costruzione dell’oggetto chiamato “Badile da netturbino”. C’è la foto di questo badile la cui benna è fatta con un cartello stradale dov’è disegnato un omino stilizzato che scava, e Vladimir Antipov, che il badile l’ha costruito, racconta: «Nel 1998 facevo il netturbino sul Kutusovskij Prospekt. Quell’anno c’è stato il famoso uragano di Mosca. Non avevo mai visto così tanti alberi sradicati e tetti scoperchiati. È stato incredibile, proprio incredibile, caricavamo i camion, segavamo gli alberi e sgombravano gli ostacoli. Io stavo caricando dell’immondizia nel camion quando ho trovato questo cartello stradale. Stavo per buttarlo, ma poi ho sentito che era davvero leggero. Ehi, ho pensato, sarebbe fantastico per spalare la neve, d’inverno. Ci davano dei badili del cazzo, inutili, quindi ho deciso di fabbricarmene uno per conto mio.Ho segato due angoli, li ho spezzati e ho piegato il terzo. L’ho forato, ho inchiodato un angolo su se stesso per rinforzarlo e ci ho infilato il manico. Ed ecco fatto il badile» (la traduzione è di Ada Arduini e Gioia Guerzoni). Nel libro ci sono altri 219 oggetti: uno zerbino fatto con tappi delle bottiglie di birra, un rullino per dipingere fatto con i resti di un bigodino, un tappo per la vasca da bagno fatto con un tacco di stivale e una forchetta, uno sturalavandini fatto con un pallone bucato e la gamba di uno sgabello, di quelle che si avvitano, una serie di antenne televisive fatte con forchette, ruote di bicicletta, laminato in vetroresina, lampade da tavolo, filo di rame, ferri da stiro, cestini per verdura, pezzi di cavo elettrico «trovati da qualche parte nel nostro allevamento di maiali». Gli oggetti di Archipov vengono prevalentemente da un momento, la fine della perestrojka, e da un posto, l’Unione Sovietica, in cui non si trovava niente, e allora non si buttava via niente, tutto era diventato prezioso, fino a delle conseguenze anche estreme, come il caso di Alexei Titov, nella cui famiglia c’era un collie, Gerda, che era molto brava, e non aveva mai fatto male a nessuno, ma alla quale a un certo punto misero la museruola perché il padre di Titov «non riusciva a buttare via i vecchi stivali di mia madre, che dopo dieci anni si erano rotti. Mio padre se li è rigirati tra le mani e ha detto: Un cuoio così buono! È un peccato buttarlo via». A vedere gli oggetti di Archipov vien da pensare che serve tutto, è utile tutto, è tutto importante, anche gli avanzi delle nostre povere vite che a vederle da dentro si è quasi sicuri che non valganoniente.