la Repubblica, 6 novembre 2022
Sulla questione del merito scolastico
L’enfatica aggiunta del Merito nella denominazione del ministero dell’Istruzione ha dato vita a un dibattitofumoso, dove per alcuni eguaglianza e merito sono antitetici, mentre per altri – fra cui il nuovo ministro – scarsa severità e poca valorizzazione del merito sono diventate inopinatamente cause delle disuguaglianze della nostra scuola. Poco si è appreso su come distinguere ciò che vogliamo e la nostra Costituzione vuole premiare – l’impegno e il talento – dalle condizioni che non dipendono dall’individuo, come l’origine economica, sociale e geografica. E pochi sono entrati nel “merito” di che cosa fare per assicurare agli studenti italiani una preparazione almeno pari a quella dei coetanei europei. Oggi siamo lontani da questa condizione minima affinché ragazzi e ragazze possano far fruttare le loro capacità all’università, nel lavoro e nella società. Alla vigilia dell’esame di maturità, che supererà certamente, uno studente su due ha serie lacune nel ragionamento matematico; quasi altrettanti faticano nella comprensione di un testo. Negli indirizzi professionali a non raggiungere un livello accettabile sono quasi 8 su 10. Per offrire davvero maggiore eguaglianza di opportunità e favorire il merito c’è bisogno di sciogliere alcuni nodi della nostra scuola, che oggi pregiudicano il futuro dei ragazzi: in particolare, l’orientamento degli studenti e la formazione dei docenti. Entrambi sono fra le riforme che l’Italia deve completare per ottenere i finanziamenti del Pnrr. Ci sono, però, ritardi e le soluzioni proposte dallo scorso governo non convincono. Un orientamento efficace è necessario per limitare il condizionamento dell’origine sociale. Oggi, ad esempio, quasi la metà di chi va al liceo dopo le medie proviene da famiglie di laureati, mentre per gli istituti professionali si scende al 6%. Difficilmente il figlio di un avvocato frequenterà una scuola professionale, anche se la preferisce allo studio accademico; ugualmente, il figlio diimmigrati andrà a un professionale, anche se potrebbe frequentare un liceo con profitto. Per rompere questo schema iniquo, gli studenti vanno non solo informati su che cosa viene dopo, ma aiutati a chiarire inclinazioni e interessi, grazie a un lavoro didattico di anni. E che deve iniziare alle medie, mentre fino a oggi – anche nel Pnrr – si è puntato solo sull’orientamento dopo il diploma, quando con ogni probabilità i giochi sono già fatti. Non meno cruciale è la preparazione di chi insegna: solo docenti padroni della loro materia, ma anche di metodologie didattiche aggiornate, abituati a lavorare con classi e allievi di ogni genere, sono in grado di migliorare gli apprendimenti di tutti, inclusi i più fragili. Anche qui il ritardo italiano è evidente. Con tensioni interne, il governo Draghi ha varato in estate la riforma della formazione e assunzione dei futuri docenti e della formazione di quelli già in servizio. Per questi ultimi ci sarà un aumento retributivo consistente, ma solo dopo ben nove anni di corsi di aggiornamento: a queste condizioni, i docenti non sembrano incentivati a correre in massa ad aggiornarsi. Per i nuovi insegnanti si prevede, invece, un percorso di abilitazione annuale in aggiunta alla laurea. Una svolta positiva e attesa, in pratica però messa in dubbio dall’assenza del decreto che definisce i contenuti dei corsi, arenatosi per il dissenso fra chi giustamente vuole standard di formazione severi e univoci, che includano per tutti competenze disciplinari, didattiche ed esperienza pratica, e il ministero dell’Università e i rettori, che vorrebbero lasciare libertà a ciascun ateneo su come formare i futuri insegnanti, rischiando enormi differenze sul territorio nazionale. Per dare sostanza al nuovo nome, il ministro dell’Istruzione e del Merito dovrà garantire che solo i candidati meritevoli possano accedere a una professione così importante come l’insegnamento.L’autore è direttore della Fondazione Agnelli