Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 05 Sabato calendario

Biografia di Tamerlano

Tamerlano. Un nome – a suo modo – evocativo, fomite di fantasie molteplici, dietro il quale si cela uno dei personaggi più controversi della storia. Capo militare, politico accorto, conquistatore dell’Asia, capace di rinnovare i fasti di Alessandro Magno o di Chinggis Kh?n, cui è stato spesso associato: attorno a Timur «lo zoppo», così detto per via di alcune ferite riportate in battaglia, sono sorte innumerevoli leggende, rendendo difficile abbozzarne la figura.Esaltato o demonizzato, a seconda del punto di vista, protagonista di cronache provenienti da mondi assai diversi tra loro, redatte in lingue molteplici – arabo, armeno, cinese, georgiano, greco, indiano, latino, turco, siriaco -, fondatore di «stati» – tutt’oggi ritenuto il padre della «nazione» uzbeka -, egli nacque probabilmente nel 1336; a quanto pare, nel villaggio di Khoja-Ilgar, nei pressi di Kish (oggi, Shakhrisabz, in Uzbekistan). Il padre, Taraghay – «allodola»: un nome totemico turco, non musulmano – era membro d’un clan appartenente alla tribù dei Barlas (o Barulas), recentemente islamizzata, che alcuni osservatori facevano risalire al «Keshig» – la guardia del corpo – di Chinggis Kh?n, cui il nostro, grazie a una politica matrimoniale oculata, si sarebbe ispirato al fine di legittimare un potere immenso.L’arabo Ibn ‘Arabsh?h, tra le fonti a lui avverse, lo descrive così: «Timur era ben fatto, alto, aveva la fronte aperta, la testa larga, una voce forte, e la sua forza non era inferiore al suo coraggio; un rossore luminoso ravvivava il biancore del viso. Le sue spalle erano grandi, le sue dita erano grosse, i suoi fianchi erano lunghi e i suoi muscoli erano forti. Il suo braccio e la gamba destra erano feriti e aveva una grande barba. Il suo sguardo era caldo e invitante.Non aveva paura della morte, e quando morì aveva quasi settant’anni, ma non aveva perso né il suo genio né la sua impavidità. Disprezzava la menzogna; le battute non lo divertivano. Preferiva ascoltare la verità, per quanto oltraggiosa fosse». Di fatto, egli riuscì nell’impresa di riunire tribù diverse sotto il proprio dominio, ottenendo il controllo del Kh?nato Chagatai occidentale, da cui avrebbe guidato una serie di campagne militari volte alla sottomissione dei numerosi potentati incontrati lungo quelle vie della seta che dal secolo precedente univano, nella varietà dei percorsi, Oriente e Occidente.Una guerra lunga quarant’anni, condotta esclusivamente a cavallo, da cui sarebbe nato l’impero timuride, destinato a frammentarsi dopo la sua morte, avvenuta nei pressi di Otrar, nel 1405. Non solo guerra, tuttavia. Timur si sarebbe fatto promotore del restauro di città, e roccaforti, ordinando l’allestimento di giardini e favorendo lo sviluppo della scienza e delle arti.Al condottiero, Michele Bernardini, Professore ordinario di Lingua e letteratura persiana, docente di Storia dell’Iran medievale e moderno e dell’Impero ottomano presso l’Università di Napoli L’Orientale, ha dedicato una corposa monografia, destinata a fungere da punto di riferimento futuro per gli studiosi italiani, unendo alla fine analisi storiografica il pregio della piacevolezza narrativa. Il volume ripercorre la biografia dell’uomo e del guerriero, seguendone la parabola e illustrandone il progetto politico, smontando numerosi luoghi comuni, di carattere strettamente celebrativo. Ciò che ne esce è il ritratto d’un «individuo che si dedicò principalmente alla guerra con alcune intuizioni politiche, ma con ridotte, se non nulle, capacità di legislatore»; che «praticava una religiosità di comodo, quando non era incline alla superstizione e alla magia»; che «aveva limitati interessi culturali, fondamentalmente destinati a una ossessione autocelebrativa prossima alla megalomania».Siamo di fronte, insomma, a un quadro inedito, capace di ridimensionare l’aura d’eroicità di cui Tamerlano è solitamente ammantato. Un quadro, a ogni modo, non meno affascinante, in grado di traslare l’attenzione verso un Oriente seducente, raffinato, bellicoso, complesso: un mondo remoto, fatto di tradizioni secolari, al crocevia fra islamizzazione, usanze turco-mongole e miti iranici, che l’autore dimostra di conoscere a fondo e che tratteggia con maestria e competenza, facendoci sospirare di fronte al blu di Samarcanda, fremere di fronte a Herat, incantare attraversando il Khorasan, strabiliare osservando Baghdad, cavalcare lungo la Corasmia, struggere dinnanzi alla maestosità dell’Himalaya, mormorare alle porte di Delhi, meravigliare sotto le mura di Damasco, scendere nel campo di Ankara, traghettandoci continuamente dal mito alla fonte, e viceversa.Come mostra, del resto, il prezioso affondo finale, dedicato alle molte riletture dell’uomo offerte dai suoi successori, in Asia centrale, in India e nell’Impero ottomano, nel mondo russo («Fortune e mito di Tamerlano in Asia») e alla fama acquisita in Occidente, da Machiavelli a Marlowe a Voltaire a Borges («Tamerlano europeo»): capitoli che soli valgono il viaggio.