Tuttolibri, 5 novembre 2022
Weimar e Carl Schmitt
Fama sulfurea, influenza smisurata (anche se fortemente contestata). In questo pseudo-distico si potrebbe compendiare la parabola di Carl Schmitt (1888-1985), uno dei massimi studiosi e filosofi del diritto del Secolo breve, immerso totalmente nei suoi orrori (a partire dalla convinta adesione al regime hitleriano, in virtù della quale fu presidente per un triennio dell’Associazione dei giuristi nazionalsocialisti) ed errori, avversario feroce di Hans Kelsen e critico implacabile della Repubblica di Weimar, in grado – nondimeno – di esercitare la fascinazione di un pensiero «forte, fortissimo» dal dopoguerra in avanti (dopo essersi ritirato a vita privata), anche – come noto – su alcuni settori della cultura di sinistra.Quodlibet ha da poco mandato in libreria, raccogliendoli in questo volume (per la cura di Mariano Croce e Andrea Salvatore, con una presentazione di Matteo Bozzon), due saggi di grande rilievo, per la prima volta tradotti in italiano (fra i pochissimi che non erano ancora disponibili): Diritti di libertà e garanzie istituzionali della Costituzione del Reich (1931) e Diritti fondamentali e doveri fondamentali (1932). Due saggi tecnici e commentari giuridici alla Costituzione del Reich del 1919 (quella della Repubblica di Weimar) che, come sempre nel caso di Schmitt, aprono però a considerazioni a tutto campo e a riflessioni ad amplissimo spettro che si estendono alla teoria politica e alla filosofia del diritto at large. La Costituzione weimariana è per lo studioso tedesco – uno dei massimi esponenti della riflessione intorno alla crisi del costituzionalismo liberale del XIX secolo – un oggetto di disamina acuta e affilata e, al medesimo tempo, un’autentica «bestia nera» in quanto (a suo giudizio) carta strutturalmente compromissoria che indeboliva e «pasticciava» le decisioni politiche essenziali. Il 1929 è per lui una cesura fondamentale, in quanto avvio di una fase irreversibile di turbolenza economica e sociale; e, come scrive, «in Germania si provò a far fronte alla situazione di crisi con i mezzi costituzionali del sistema presidiale e dello stato di eccezione». Questioni che si ritrovano nel cuore del suo sistema di pensiero giuridico (e anche della sua teologia politica, spesso compendiata nella massima «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»).Nella coppia di saggi Schmitt affronta la sistematica dei diritti fondamentali – ovvero la questione dell’interpretazione della seconda parte della Costituzione del ‘19 – e l’analisi della problematica comune delle garanzie istituzionali. Testi scritti ambedue nel periodo contrassegnato dall’insediamento del primo governo Brüning, avvenuto il 30 marzo 1930, investito dell’obiettivo di fronteggiare la terribile crisi economica attraverso una serie di provvedimenti emergenziali emanati per mezzo di decreti presidenziali, dal momento che l’esecutivo non poteva contare su una maggioranza in Parlamento. Negli anni immediatamente seguenti, la situazione andrà ulteriormente degenerando e condurrà alla dissoluzione della Repubblica di Weimar, all’insegna di tappe quali l’abolizione del vincolo ai diritti fondamentali della Costituzione del 28 febbraio del ‘33 e l’atto del 24 marzo dello stesso anno, che avviò il suo smantellamento senza ritorno pur non decretandone l’abrogazione formale. Gli scritti qui raccolti – sottolineano gli studiosi che hanno lavorato a questa edizione italiana – costituiscono, dunque, uno «scarto» di rilievo rispetto alla produzione schmittiana, e ne evidenziano una proteiformità che non ne fa ovviamente un intellettuale liberaldemocratico (anzi...), ma un giurista positivo in grado di definire le condizioni necessarie per salvare l’ordinamento dall’avvilupparsi senza fine della sua crisi. È quello che, nella postfazione, Mariano Croce chiama l’«istituzionalismo ritrovato»: negli anni Trenta, sulla scorta dell’approfondimento della dottrina del giurista francese Maurice Hauriou (figura importante delle teorie novecentesche sulla crisi sullo Stato), si consumava così il passaggio di Schmitt dal pensiero del decisionismo a quello dell’istituzionalismo. All’insegna di un approccio (per l’appunto) se non «antiliberale» sicuramente «aliberale», il giurista tedesco delineava la sua concezione – di cui sarà debitrice la teoria giuridica successiva – delle garanzie istituzionali, a fondamento di un tentativo di drastica revisione della Costituzione del ‘19 che stava naufragando finalizzato al salvataggio. O, per meglio dire, della sua seconda parte, quella dei diritti fondamentali, mentre la prima – quella relativa all’organizzazione dei poteri e degli apparati – risultava «insalvabile» nel caos in cui era precipitato lo Stato repubblicano. Lo studioso stabiliva una distinzione, nell’ambito di quella seconda sezione della Costituzione weimariana, fra garanzie giuridiche e principi programmatici, da una parte, e garanzie costituzionali di talune istituzioni del diritto pubblico e privato (quelle che aveva denominato, giustappunto, «garanzie istituzionali» e «garanzie d’istituto», tra le quali la proprietà, l’autoamministrazione comunale, il pubblico impiego), dall’altra. In tal modo, Schmitt ha fornito un contribuito significativo all’odierna differenziazione fra efficacia giuridica soggettiva e oggettiva dei diritti fondamentali. Questi ultimi erano così diventati, nella nuova interpretazione schmittiana, il basamento di un ordine sostanziale indispensabile per una «democrazia nazionale tedesca». Le garanzie istituzionali vanno, pertanto, intese come scudo di alcuni diritti fondamentali dei componenti del popolo (e di talune persone giuridiche, come le società a responsabilità limitata e la Chiesa cattolica romana) da separare dal destino della forma dello Stato legislativo-parlamentare, con un ordinamento liberaldemocratico che viene svuotato dei suoi presupposti teorici e politici originari. E, dunque, Schmitt desume dall’istituzionalismo il riconoscimento della «forza nomica del sociale» – con lo Stato amministrativo novecentesco che deve riconoscere il dato di fatto (e il fatto sociale) della società come campo associativo -, come pure il superamento del lessico della giuspubblicistica tedesca ottocentesca rivelatosi largamente inadeguato a descrivere le trasformazioni del XX secolo.