Tuttolibri, 5 novembre 2022
I colori di Proust
Negli ultimi anni della sua vita Proust provò a godersi il successo internazionale che finalmente gli pioveva addosso. Era come se la consapevolezza dell’importanza epocale della sua impresa non gli bastasse più. I lunghi anni di silenzio e di concentrazione non lo avevano immunizzato dalle lusinghe della vanità; né lo avevano tramutato in uno di quegli artisti malmostosi e nevrotici che disdegnano i riconoscimenti. Malgrado a quasi un secolo di distanza possa apparirci increscioso, la vittoria del premio Goncourt nel ’19 era stata a dir poco controversa. È vero, Proust aveva brigato parecchio per vincerlo, ma ciò non giustificava il coro di ironie capziose e di ingiurie con cui quel trionfo era stato accolto e, per cosi dire, sporcato. La stampa, come insegna Balzac, non cambia mai. C’è qualcosa di spaventoso nella sua immutabilità. Meno male che, alla lunga, l’irrisione, che utilizza per distruggere ciò che non capisce, le si ritorce contro. In ogni modo, dalle colonne del Débats, de L’Éclair, de Le Petit Parisien erano arrivate bordate d’un sarcasmo intollerabile. Proust era stato accusato di essere l’ultima cariatide dell’Ancien Régime, di coltivare un’idea della letteratura mortuaria ed elitaria (che Iddio perdoni gli estensori di questi pezzi!). Inoltre, Les Croix de bois, il romanzo di Roland Dorgeles che, fino all’ultimo voto, aveva conteso la vittoria al secondo tomo della Recherche, era diventato un bestseller. Un successo commerciale, almeno per il momento, precluso a Proust. Un successo commerciale che Proust non avrebbe mai smesso di agognare. Insomma, la verità, rivelata da un formidabile saggio di Giovanni Macchia, è che Proust, negli ultimi mesi della sua vita, stava scoprendo il piacere galvanizzante di essere amato dai lettori comuni: da quelli che entrano in libreria e, pieni di fiducia, tirano fuori il portafogli.
Il paradosso è che solo pochi anni prima aveva fatto di tutto per essere preso in considerazione dagli intellettuali. Aveva dato fondo a ragguardevoli riserve di piaggeria per essere accettato da Jacques Rivière e da André Gide. Ma ora – ora che aveva la loro attenzione devota – era scontento. Temeva che la Recherche diventasse un affare da specialisti. E lui, massimo esperto mondiale di Memoria, sapeva che mettere la Recherche nelle mani degli specialisti era come condannarla al subdolo oblio riservato ai capolavori che tutti hanno sentito nominare ma che nessuno legge più.
Del resto, la sua idea della lettura era rimasta fresca e ingenua. La letteratura fa parte della vita. È un prisma attraverso il quale la vita, se non proprio senso, acquista prestigio e splendore. Da sempre in casa Proust, soprattutto tra la mamma e Marcel, le citazioni tratte da Racine e Madame de Sévigné avevano scandito il ménage quotidiano: usate per commentare i piccoli disguidi e le piccole gioie dell’esistenza. La vita che spiega la letteratura. E la letteratura che spiega la vita. Non è forse questo il grande ideale proustiano? Ecco perché Proust aveva combattuto con gli editori – prima con Grasset, poi con Gallimard – per rendere il prezzo dei suoi libri accessibile ai lettori meno abbienti. Sapeva che i lettori che contano sono quelli che acquistano le edizioni economiche. Quelli che, assorti e impenetrabili, se ne stanno lì, nel cantuccio dello scompartimento affollato di pendolari del treno delle cinque e trenta, chini su un libro come un prete dentro al breviario. Questo il lettore che Proust voleva sedurre. Un lettore che, conosciuta la Recherche, non l’avrebbe più dimenticata. Un lettore che morisse di Recherche. Che dopo aver tremato di sdegno per la sorte di Papà Goriot, riso alle spalle di Emma Bovary, compatito le sventure di Anna Karenina, fosse pronto a seguire le mille imprevedibili peripezie di Charles Swann e Palamede Charlus.
A un secolo di distanza possiamo dire soddisfatti che la storia non solo non ha deluso le sue aspettative ma è andata ben oltre. Sappiamo, inoltre, che Proust, poche ore prima di morire, stava ancora rimaneggiando il celebre episodio della morte di Bergotte. Per chi non lo sapesse, Bergotte è lo scrittore della Recherche che il Narratore idolatra, e a cui in qualche modo s’ispira. Per questo la scena della sua morte ha un peso specifico così importante. Non sorprende, dunque, che Proust la ritocchi fino all’ultimo. La sensazione è che, ragionando su Bergotte in fin di vita, Proust ragioni su sé stesso con un piede nella fossa, e sulla propria sorte postuma. Nella famosa scena, Bergotte, già malatissimo, si reca a una mostra al Jeu de Paume per vedere un quadro di Vermeer: la celebre Veduta di Delft. A Bergotte interessa soprattutto un «piccolo pezzo di muro giallo» mirabilmente dipinto da Vermeer. Di fronte al quadro, dopo aver identificato l’agognato dettaglio, e averlo a lungo contemplato, Bergotte ha un malore. Prima di morire però, ispirato dalla preziosità di quel giallo, ha un ripensamento rispetto alla sua stessa opera. «È cosi che avrei dovuto scrivere,» si dice, con la stessa densità cromatica esibita da quel piccolo pezzo di muro giallo.
Ora, non ha senso stare qui a elucubrare su un passo che sarà stato commentato centinaia di volte. Non ha importanza stabilire se il passo vada inteso in senso autoironico, o se vada preso seriamente; se Proust si faccia beffe di sé stesso, di Bergotte o del lettore... Mi piace ricordare un libro di qualche anno fa del filologo romanzo Lorenzo Renzi, intitolato Proust e Vermeer. In esso Renzi, con un’acribia degna di Sherlock Holmes, si mette a caccia di quel benedetto muro giallo. Finché è costretto a rilevare come l’identificazione di questo «pezzo di muro giallo» nel quadro di Vermeer sia ardua, se non addirittura impossibile. In parole povere, non c’è nessun pezzo di muro giallo nel quadro di Vermeer. E, ammesso che quello che si vede sull’estrema destra sia un muro (e non lo è), tutto si può dire tranne che sia «prezioso» (come Proust lo definisce). Il dato che più mi preme notare è che Proust, nel momento in cui si trova a riflettere sullo stile di uno scrittore (sul proprio stesso stile?), invece di ricorrere a un’analisi attenta del lessico, della sintassi o della morfologia, chieda aiuto a un quadro e a un pittore. E, inoltre, che per esprimere la sua idea di stile ricorra a un colore.
In una delle pagine teoriche del Tempo ritrovato (quelle che tanto dispiacevano a Nabokov), Proust afferma che lo stile per lo scrittore non è una questione di tecnica ma di «visione». Il che significa che uno scrittore non pensa in una lingua (come comunemente si crede). Uno scrittore pensa per immagini. E difficilmente tali immagini sono in bianco e nero. Come per quegli strani individui, affetti da disturbi sinestesici, per cui ogni lettera dell’alfabeto ha un colore diverso, per lo scrittore ciascuna delle sue frasi deve avere una tonalità cromatica peculiare e del tutto inimitabile. Mi chiedo se non sia questo ad aver spinto Eleonora Marangoni ad avventurarsi nella stesura di questo affascinante libro su Proust e i colori. Eleonora Marangoni è una scrittrice italiana che ha compiuto gli studi accademici a Parigi. Nel 2011 ha pubblicato in Francia un libro intitolato Proust et la peinture italienne che in breve tempo è diventato un piccolo caso editoriale. È grazie a quel delizioso libretto che ho avuto modo di conoscerla. Ed è con vero piacere che oggi introduco questo suo Proust. I colori del Tempo (Feltrinelli). In un certo senso, si tratta di un lavoro più ambizioso rispetto al precedente, meno compilativo. Sotto la graziosa egida del divertissement, infatti, Eleonora Marangoni si interroga su uno dei misteri più avvincenti della Recherche: lo stile in cui è scritta, o, se preferite, la materia prelibata di cui è composta. Lo fa in modo spigliato, a tratti addirittura spericolato e fazioso. Partendo da una convinzione che mi pare incontestabile: «Il colore sta allo stile come il disegno sta alla trama, e le grandi opere non sono, in fondo, che una combinazione riuscita dei due elementi. Ma uno finisce sempre col prevalere sull’altro e in pittura, come in letteratura, si è coloristi o disegnatori».
Per quanto l’immagine possa apparire abusata, leggere Proust. I colori del Tempo produce la stessa vertigine del caleidoscopio: una policromia che può dare alla testa. E ciononostante Marangoni fa di tutto per evitare qualsiasi indugio estetizzante e per eludere qualsiasi suggestione oracolare. Come dicevo, lei va al cuore del problema proustiano. A lei interessa l’origine, la radice. È dai tempi lontani di Newton, di Goethe e di Schopenhauer che scienziati, letterati e filosofi si interrogano sull’essenza dei colori. Diciamo che Proust fa parte della famiglia. La sua teoria dei colori non ha alcuna ambizione scientifica o, per così dire, sistematica. La sua teoria dei colori si chiama Memoria. E tale teoria diventa prassi grazie allo stile. È questo il misterioso travaso che interessa a Eleonora Marangoni. A un certo punto, parlando del verde, si chiede: «Cos’è la vita, se non una serie ininterrotta di impressioni da cogliere al momento giusto, che aspettiamo a lungo e che in un attimo vediamo scivolare dietro di noi? Nella Recherche, il verde è uno sfondo uniforme, è il colore del principe in fuga, del re degli inafferrabili: il tempo, che tiene insieme esseri, luoghi e momenti nel “velluto inimitabile degli anni"». È difficile spiegare quale brivido di simpatia generino queste parole in me. Ma sono certo che qualsiasi altro devoto proustiano potrà intenderle come io le ho intese. Non mi resta che togliermi dai piedi, e lasciare spazio a Eleonora Marangoni e al suo splendido arcobaleno.