ItaliaOggi, 5 novembre 2022
Il più bel libro di Ian Fleming
Giornalista, studi a Eton, poi a Monaco e Ginevra, accademia militare a Sandhurst, ex funzionario del servizio segreto militare, amico di Edith Sitwell, Noel Coward e W. Somerset Maugham, Ian Fleming pubblica la prima avventura di James Bond, l’agente segreto 007, quando la spy story non è ancora un genere letterario riconoscibile ma un sottogenere del poliziesco, o un parente esotico e un po’ snob del romanzo d’avventura.
Nel 1953, quando esce Casino Royale (in copertina un nove di cuori, tutti sanguinanti, come nei santini del Sacro Cuore di Gesù) e comincia la leggenda del «doppio zero», la spy story sta prendendo lentamente e faticosamente forma. Cresce a dimensione autonoma insieme alla guerra fredda, di cui sempre all’epoca si occupa la cronaca politica e giudiziaria, ma solo marginalmente la fiction. Questa sembra intimidita dalla minacciosa imperscrutabilità degli eventi: l’affaire Rosenberg e i colpi di Stato nell’Est europeo, il maccartismo e la caccia alle streghe a Hollywood, la morte di Stalin, i francesi in Vietnam, la guerra di Corea, la defezione delle spie di Cambridge, una gioventù improvvisamente «bruciata», gli scienziati atomici di fede bolscevica, le leggende metropolitane riguardo ai candidati manciuriani col cervello riprogrammato e volto al peggio.
In questa cupa alba degli anni Cinquanta (in Inghilterra c’è ancora il razionamento, e non c’è più l’Impero, anche se Fleming e i suoi amici del bel mondo, come Henry James e P.G. Wodehouse, non sembrano badarci troppo) la guerra fredda è naturalmente già in corso, ma Eric Ambler, Peter Cheyney e il francese Jean Bruce sono i soli autori pop di spy stories più o meno sintonizzate con lo spirito dei tempi. Ci sono anche Greene e Maugham (di quest’ultimo Fleming è spesso ospite a Villa Mauresque di Cap Ferrat, sulla Costa Azzurra, dove l’autore di Ashenden l’inglese trascorre la sua operosa vecchiaia). Ma sono scrittori «alti»: leggono romanzi di spionaggio ma non ammettono di scriverne o d’averne mai scritti, a parte una scappatella o due ogni tanto (ma distrattamente, come può capitare d’ubriacarsi, e di finire la serata al bordello).
Fleming conosce benissimo Ambler, naturalmente: è leggendo La maschera di Dimitrios che nel 1956 raggiunge in volo Istanbul, dove intende documentarsi per la quinta avventura di James Bond, From Russia with Love, da noi A 007, dalla Russia con amore (lo considera il suo libro più ambizioso, quello in cui l’agente segreto più cool della storia della letteratura, tenta, bisogna dire con scarso successo, di trasformarsi da «fantoccio di cartone» in bambino vero). Fleming ha letto e forse annotato anche le opere di Peter Cheyney: nelle prime rare recensioni dei suoi romanzi, quando Bond non è ancora un’icona, viene definito dai critici «il Cheyney dell’alta società», vale a dire un Cheyney snob e dandy. È una lode, perché Cheyney è bravo, ma anche un biasimo, perché Cheyney è uno scrittore di serie B, al quale non si perdona Lemmy Caution (bisognerà aspettare Godard per fare di Lemmy Caution un’icona del pop engagé). Forse Fleming ha orecchiato qualcosa anche di Jean Bruce (sarà tradotto in inglese solo negli anni Sessanta, ma Fleming è spesso in Francia, ed è un lettore compulsivo).
Certamente conosce Graham Greene, come tutti, ma le atmosfere metafisico-teologiche di Greenelandia, che già infastidiscono lo stesso Greene, devono risultargli insopportabili (benché il suo libro preferito, in giovinezza, sia stato La montagna incantata di Thomas Mann, che quanto a nebbie metafisiche non è secondo a nessuno). Ammira molto, e a buon titolo, Mickey Spillane, che all’epoca è il più trucido e selvaggio dei giallisti, l’equivalente pulp di J.D. Salinger (sia Mike Hammer che Holden Caulfield s’avventurano come spericolati vigilantes da fumetto nella notte metaforica e segreta di Manhattan). Fleming considera Spillane una delle sue fonti, ma nel 1950, più o meno quando Spillane diventa Testimone di Geova, si dice «profondamente deluso» da My Gun is Quick (da noi Una ragazza e una pistola): Spillane «si è ammorbidito», lamenta, «e comincia a indulgere al sentimentalismo». Ha una grande ammirazione, poi, per Raymond Chandler, che stranamente, a dispetto del suo carattere malmostoso, la ricambia. «Ian Fleming» – scrive Chandler – «è lo scrittore più efficace e più incisivo di quel genere letterario che in Inghilterra penso si chiami ancora thriller».
Sono i primi anni Cinquanta. Ai tempi le spie non sono ancora personaggi romantici. Sono figure per lo più disprezzate, da guardare con fastidio e persino con orrore, anche quando si battono dalla parte giusta, quale che sia. Si possono ancora tollerare gli agenti involontari, che capitombolano per caso in un intrigo più grande di loro, come succede agli eroi di Eric Ambler, o agli sfortunelli che devono misurarsi con Fu Manciù e altri babau, perché non hanno alternative, come capita ai gentiluomini di Maugham e di Sax Rohmer. Spiano, sabotano, un giorno prede, un giorno cacciatori, ma sono dilettanti e hanno un’anima. Altra cosa i professionisti. Sabotatori, assassini, doppiogiochisti, ladri e bugiardi, traditori, gli agenti segreti di mestiere sono disposti a correre qualunque rischio (in particolare sono sempre pronti a rischiare, senza pensarci due volte, la vita altrui). Gelidi e spietati, agiscono per ragioni sordide: denaro, gusto dell’avventura, fanatismo ideologico, psiche malata. Le spie di mestiere, mascherate, un coltello tra i denti, non sono modelli da imitare. Nessun bambino, da grande, vuole abbracciare la carriera della spia. Molto meglio diventare pompieri o astronauti. Poi arriva James Bond e tutto cambia.
Cambia perché Fleming è uno scrittore unico, straordinario. Per capirlo è sufficiente fare caso agli straordinari nomi dei bulli, delle pupe e dei comprimari delle sue storie: Miss Moneypenny, Mr. Big e Solitaire, Grilletto, Vesper Lynd e Le Chiffre, Darko Kerim, Gala Brand e Hugo Drax, Seraffimo e Tiffany Case, Honeychile Ryder e il Dottor No, Auric Goldfinger e Pussy Galore, Kyssi Suzuky e Tigre Tanaka, Domino ed Emilio Largo, Oddjob, Francisco Scaramanga e Mary Goodnight, Irma Bunt (la cattiva) e Marc-Ange Draco (il buono). Quanto a 007, deve il suo nome al manuale Uccelli delle Indie occidentali, opera d’un tale professor James Bond: «Volevo il nome più semplice, più banale, più facile possibile. James Bond mi sembrò perfetto».
Oltre ai nomi, che da soli gli hanno meritato il nono posto, sopra Stendhal, nella lista dei libri preferiti da John Fitzgerald Kennedy, ci sono altre squisitezze segrete nei suoi romanzi e racconti. C’è per esempio la lunga e struggente storia d’amore del marinaio delle Player’s, che una ragazza racconta a James Bond maneggiando un pacchetto di sigarette gualcito. C’è l’haiku che James Bond scrive su un tovagliolo di carta dopo aver cenato con Tigre Tanaka, il direttore del servizio segreto giapponese: «Si vive solo due volte / una volta quando si nasce / e una volta quando si guarda la morte in faccia». In Solo per i tuoi occhi, in originale You Only Live Twice, che trovate in libreria in una nuova edizione, c’è il racconto intitolato Il «quantum di sicurezza», dove il campione delle spie ascolta, in una serata fiacca, dopo cena, la cupa storia d’amore d’un funzionario inglese e del suo matrimonio e poi, tornando in albergo, sotto le stelle, s’accorge che «un’osservazione casuale aveva aperto davanti a lui il libro della vera violenza, dove le passioni umane sono crude e reali e il destino gioca tiri più autentici di qualsiasi cospirazione di servizio segreto progettata dai governi del mondo».
Solo per i tuoi occhi, una raccolta di cinque racconti appena ristampata da Adelphi, è forse il libro più bello e imprevedibile di Fleming. Letteratura «alta» che il pop ha generato dai propri lombi.
Ian Fleming, Solo per i tuoi occhi, Adelphi 2022, pp. 224, 18,00 euro