Avvenire, 5 novembre 2022
Ecco perché Erdogan vuole chiudere la partita ucraina
Recep Tayyip Erdogan ha fretta di chiudere la partita ucraina e non solo per il prestigio internazionale che il successo di una seconda mediazione, dopo quella del grano, gli porterebbe. Il 2023 sarà anno di elezione, con il numero uno di Ankara che, per candidarsi ed essere rieletto per la terza volta consecutiva a capo dello Stato, deve far convocare i comizi obbligatoriamente entro il mese di giugno. Il tempo, insomma, è poco e se all’esterno, l’immagine proiettata della Turchia è quella di un Paese in ascesa sullo scacchiere internazionale, dentro ai confini nazionali la situazione è molto meno rosea. L’economia nazionale è a pezzi, stritolata non solo dalla guerra in Ucraina, ma soprattutto da una inflazione che ha superato l’85% e una valuta nazionale, la lira turca, che nell’ultimo anno ha perso il 50% sul dollaro. Molto dipende dalla politica sui tassi di interesse portata avanti dal presidente della Repubblica e definita non ortodossa dagli economisti: in sintesi, mentre tutte le banche centrali a livello mondiale stanno alzando il costo del denaro per frenare l’inflazione, Erdogan sta facendo l’esatto contrario per sostenere le esportazioni e l’industria manifatturiera. Una scelta che per molti è considerata suicida per l’economia nazionale e che sta incidendo sui bilanci di molte aziende e anche sui risparmi di milioni di cittadini. Il prestigio internazionale, insomma, in sede elettorale paga solo fino a un certo punto. Per questo il presidente turco sta cercando di chiudere sull’Ucraina.
La fine del conflitto grazie alla mediazione turca, per prima cosa avrà come conseguenza lo sblocco del Mar Nero, che per la Turchia è un corridoio commerciale molto importante. In secondo luogo, mette Erdogan nelle condizioni di andare a riscuotere il premio per il risultato raggiunto da più parti.
Gli Stati Uniti di Joe Biden sono quelli che dovranno mostrarsi più generosi. Il numero uno di Ankara si aspetta il ritorno di investimenti stranieri diretti nella Mezzaluna, denaro ‘solido’ quindi non esposto alla volatilità dei mercati turchi. In secondo luogo, Erdogan vuole la riammissione del Paese, che rappresenta anche il secondo esercito numerico della Nato, nel programma F-35, da cui era stato estromesso a causa dell’acquisto del sistema missilistico da difesa S400 dalla Russia. L’Europa dovrà molto probabilmente fare i conti con la richiesta di liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, oltre al problema, enorme, delle future vie dell’energia, dove la Turchia potrebbe diventare l’hub del gas russo e nello stesso tempo riuscire a entrare nel progetto Eastmed, pena lo scoppio di un conflitto a causa del “nodo Cipro”, questa volta nel cuore del Mediterraneo. Un prezzo non indifferente sarà pagato anche da Mosca, che vedrà diminuita la sua sfera di influenza in tutti i teatri dove è presente insieme con l’alleato di convenienza turco, a partire dalla Libia, fino ad arrivare al Caucaso, passando per Siria e Balcani. Erdogan si guarda molto bene dall’interrompere del tutto il rapporto con Mosca, soprattutto ora che i ruoli sono più bilanciati.