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 2022  novembre 05 Sabato calendario

Intervista a Paul Auster per la sua biografia su Stephen Crane

Paul Auster ha avuto il Covid. La voce è roca al telefono dal suo studio di Brooklyn, New York. Ogni tanto si ferma, per bere dell’acqua. Tossisce, si schiarisce la gola. «Mi dicono che è long Covid. Posso lavorare solo la mattina, perché il pomeriggio mi sale la febbre e sono costretto a stendermi. Poche linee, ma molto fastidioso. Sono distrutto». E comunque non si ferma. Lavora come un forsennato. Come sempre. Sta scrivendo un nuovo romanzo, ha appena concluso un saggio sul possesso delle armi in America, che uscirà il mese prossimo, ed è reduce da due fatiche letterarie mastodontiche, non fosse altro che per il numero di pagine. A 75 anni Paul Auster è uno dei grandi scrittori americani, autore di una ventina di romanzi, vari saggi, ha vinto premi, vive a Brooklyn con la moglie Siri Hustvedt (scrittrice anche lei). Conosciuto per i suoi romanzi eleganti e lapidari – La trilogia di New York e Moon Palace che lo hanno consacrato nel mondo ormai hanno più di 30 anni – negli ultimi tempi sembra che Auster si voglia cimentare con opere ampie nella forma ma soprattutto nell’ambizione e nell’audacia. In 4321 (944 pagine di narrativa speculativa) esaminava i vari percorsi che una vita può prendere, le quattro vite possibili dello stesso personaggio, in una sorta di costruzione per sliding doors. Ora esce in Italia Ragazzo in fiamme, l’incursione in una forma nuova di narrazione, in parte saggistica, in parte biografia, in parte critica letteraria, ma soprattutto un grande racconto della vita di Stephen Crane, romanziere e poeta del secolo scorso, autore de Il segno rosso del coraggio, morto a soli 28 anni, autore che per Paul Auster è diventata un’ossessione. Il risultato è un libro di 1006 pagine (di cui 66 solo di fonti e bibliografia).Un’ossessione meravigliosa e contagiosa anche per chi leggerà il libro. Come è nata?«È un autore che volevo presentare al grande pubblico perché non ha avuto il riconoscimento che meritava. L’avevo letto da ragazzo, perché Il segno rosso del coraggio era una lettura obbligatoria nelle secondarie. Avevo letto anche The Blue Hotel, e ricordavo di averlo amato. Ma erano memorie di tantissimi anni fa. Poi nel 2016 quando ho finito 4321 ero esausto. Avevo lavorato tre anni e mezzo, sette giorni alla settimana, per venirne a capo. Sapevo che non avrei potuto scrivere niente per un bel pezzo, dovevo riprendere le energie, ero svuotato. Ho l’immagine di me seduto su una sedia, stremato. Il piano era di riposarmi, vedere dei film, leggere, non fare niente, prendermi una pausa come non avevo mai fatto prima».Cosa aveva intenzione di leggere?«Varie cose. Anche classici che mi mancavano. Per esempio, Gita al faro di Virginia Woolf. Illuminante. Un romanzo meraviglioso, che ho letto e poi riletto, fermandomi su ogni parola e tornando indietro per assaporare ogni paragrafo. Che bellezza! E poi ho preso in mano un’antologia di scritti di Stephen Crane. Non ricordavo molto, se non che mi era piaciuto da ragazzo. Volevo dargli un’altra chance. Ho iniziato da The Monster, che non conoscevo. Ho subito pensato: che scrittore. Ho continuato a leggere tutta l’antologia, 1.300 pagine; e più procedevo più la mia ammirazione continuava a crescere. Così ho comprato tutti i libri di Crane e poi mi sono cercato tutta la sua produzione: gli articoli e i bozzetti per i giornali, i saggi, i racconti, le poesie, le novelle. In soli 28 anni ha avuto una produzione molto intensa e variegata. E così mi sono innamorato di lui e ho pensato di scrivere un piccolo libro per rendere omaggio al suo genio».Piccolo?«Il progetto era di stare sulle 150-200 pagine. Volevo parlare della sua opera, poi ho dovuto raccontare la storia della sua vita, poi di cosa in cosa è diventato così. Ci ho lavorato per due anni e mezzo e ho assaporato ogni minuto. In fondo scrivere una biografia di questo tipo non è così diverso che scrivere un romanzo. Ci sono i fatti, certo. E per quelli ho fatto riferimento al libro su Crane di Paul Sorrentino, l’esperto massimo e definitivo della sua vita. Ma Crane è così complesso che per poterne scrivere ho dovuto scendere nel profondo della sua mente come si fa con i personaggi di un romanzo. Per capirlo era necessaria l’immaginazione. La cosa veramente strana è che mentre scrivevo il libro pensavo di parlare con lui. Giravo per New York e pensavo: qui ci sei stato. Questo non lo puoi aver visto perché l’hanno costruito dopo. Vedevo un aereo e pensavo: questo Stephen non l’ha mai visto».Le succede anche con i personaggi dei suoi romanzi?«Nei romanzi i personaggi vengono dal profondo dell’inconscio, devo ascoltarli e non posso costringerli a fare cose che non vogliono. È un processo strano e complicato che ancora dopo tutti questi anni non riesco a spiegarmi. Nel caso di Crane il personaggio è reale e di finzione al tempo stesso e per un libro come questo anche la parte della realtà è fondamentale. Ho letto tantissimo per recuperare tutte le notizie necessarie, per esempio sulla guerra civile. È stato fondamentale l’aiuto di Paul Sorrentino, a cui mandavo via via il mio lavoro da leggere. Cosa che non faccio mai».Non fa leggere a nessuno il manoscritto in corso d’opera e le varie stesure?«No. Solo a mia moglie Siri. Ogni venti o trenta pagine le passo a lei. È la persona più intelligente del mondo e mi fido di lei completamente. Siri fa lo stesso con me, solo io leggo i suoi scritti. E la cosa strana è che ha sempre ragione. Ma di Crane non sapeva niente, quindi…».Mi sembra che la sua ossessione per Crane abbia delle radici molto profonde. Il decano della letteratura americana che dialoga in modo quasi monomaniacale con l’autore morto giovane che rischia di cadere nel dimenticatoio. Perché questo legame così forte?«Una risposta potrebbe essere: siamo nati entrambi a Newark. Entrambi amiamo il baseball e giocavamo da ragazzi».Troppo semplice.«In verità Crane, come me, ha faticato molto a essere riconosciuto e ha penato per affermarsi come scrittore. E quando dico penato, dico che entrambi abbiamo patito la fame e non sapevamo come pagare le bollette e trovare qualche soldo per mangiare».Crane dopo i rifiuti si è pubblicato da solo il primo romanzo, con esiti infausti. Lei scrive che è una tradizione americana venerabile quanto disonorevole.«Disonorevole forse è troppo. È solo che non risolve il problema. Rimani invisibile. Anche Withman lo aveva fatto con Foglie d’erba e per promuovere il libro scriveva recensioni firmate con pseudonimi. Anche Melville lo fece con le sue ultime raccolte di poesie. Guarisce forse le ferite dell’ego ma condanna alla nullità».Crane, lei scrive, “era intenzionato a mantenersi facendo lo scrittore e rifiutava di prendere in considerazione qualsiasi tipo di lavoro. Una nobile decisione, ma se la passò male fino alla fine. La linotype dà e la linotype toglie”. Lei è stato rifiutato 17 volte. Però alla fine la linotype a lei ha dato molto. Un altro legame?«Fino ai 40 anni i miei libri non mi hanno dato da mangiare. Sono così vicino ai problemi economici di Crane perché li ho sperimentati personalmente. Anche nel mio caso la passione per la scrittura è nata prestissimo. I miei genitori non hanno studiato. Prendevo i libri alla biblioteca. La prima poesia l’ho scritta che avevo 9 anni. È una storia molto commovente, in verità».La può raccontare?«Ricordo che mi svegliai un sabato mattina, era la prima bellissima giornata di primavera. Devo uscire, pensai. Andai a fare una passeggiata nel parco, c’era erba giovane e vedevo le gemme sugli alberi. Sentii che dovevo scrivere una poesia perché era tutto troppo bello. Continuai a camminare fino a un piccolo negozio dove comprai un taccuino e una matita. Poi tornai al parco, mi sedetti su una panchina e comincia a scrivere sulla primavera. Non ho più la poesia, ma ti posso garantire che era bruttissima. Ero così stupido, naïf e ignorante di tutto. Ma quando iniziai a scrivere ciò che stavo vedendo mi sentii connesso con tutto ciò che mi circondava come non mi era mai accaduto e ricordo il senso di felicità assoluta. Credo che tutto vada riportato a quel giorno, a quel senso di connessione».Da poeta in erba a grande scrittore c’è stato tanto altro in mezzo.«A 15 anni ero sicuro che avrei fatto lo scrittore. Ho sempre pensato che non avrei potuto fare altro. E la mia ambizione era scrivere un romanzo. Da teenager ho composto dozzine di racconti. E anche poesie. Poi all’università, intorno ai 20 anni, avevo un sacco di idee per un romanzo. Avevo l’ambizione, pensavo di essere un wonder boy, ma non ci sono riuscito. Ho iniziato quattro romanzi che mollavo e riprendevo e poi ho lasciato tutto. Così mi sono dato alla poesia, scrivevo articoli e recensioni, traducevo, ma facevo la fame. Intorno ai 30 anni ho smesso anche con la poesia. Ho avuto un blocco. Per sopravvivere ho continuato con le traduzioni. Ero davvero disperato e per un anno non ho più scritto un rigo. Il mio unico problema era trovare i soldi per mangiare».Il punto di svolta?«Dicembre ’78. Avevo 31 anni. Pensavo che la mia carriera di scrittore fosse morta prima ancora di iniziare. Tutte le mie speranze erano finite in nulla. Il mio amico pittore David Reed al tempo aveva una fidanzata che voleva fare la coreografa e l’accompagnai alle prove di un balletto. Invitò alcuni amici e andammo a questo spettacolo – ne ho scritto in Diario d’inverno. I ballerini danzarono in maniera magnifica per una dozzina di minuti e lei poi spiegò cosa significava quel balletto. Le sue parole erano così inadeguate a quello che avevo visto, non che lei fosse stupida, ma la scissione tra la realtà e la sua rappresentazione era così profonda che più lei parlava più mi sentivo felice. Una sensazione stranissima, ma quella sera tornai a casa con una sorta di entusiasmo elettrico e inizia a scrivere una piccola poesia in prosa, per cercare di riportare con le parole l’esperienza che avevo avuto. Ho scritto questa cosa – White Spaces – in maniera piuttosto selvaggia, molto più liberamente di qualsiasi cosa avessi fatto prima. Ho finito una notte del gennaio del 1979, alle 2 di notte di un sabato sera. Fuori nevicava. Andai a dormire. Alle sette di mattina squilla il telefono».Sembra un romanzo.«Quando ti chiamano il sabato mattina a quell’ora non è buon segno. Era mio zio per dirmi che mio padre era morto di un attacco di cuore. Aveva 66 anni ed era in buona salute, quindi non ero pronto a quella notizia. Arrivò come uno shock assoluto. Lui moriva mentre io finivo il mio poema. Iniziai a scrivere di lui e nacque così L’invenzione della solitudine. Mio padre non aveva mai capito come uno volesse fare lo scrittore, non aveva alcun senso per lui, voleva che trovassi un lavoro, che guadagnassi dei soldi, diventassi ricco, il sogno della maggior parte degli americani. L’ironia ha voluto che iniziassi a guadagnare con questo libro i miei primi soldi dalla scrittura. Non erano tanti, ma ero così povero, che almeno potevo respirare, vivere senza dovermi preoccupare per la bolletta della luce e mettere del cibo nel piatto. Così ho ricominciato a scrivere fiction. A quel punto ho capito che ero pronto. E i romanzi che avevo iniziato e ripreso e mollato nei miei vent’anni sono diventati La trilogia di New York e Moon Palace. Questa è la mia strana storia, quindi conosco la lotta e il desiderio bruciante di scrivere. Perché non ho mollato? Non lo so».Quante similitudini con il giovane Crane. Anche Paul Auster ha conosciuto le fiamme. La scrittura è un talento o si può insegnare? Lei lo ha fatto per cinque anni a Princeton.«L’immaginazione o ce l’hai o non ce l’hai. Io ho insegnato a questi studenti, leggevo le loro storie ma non ho mai pensato che valessero granché. Ma dicevo che era importante che ci provassero per diventare migliori lettori e per capire meglio come nasce un grande libro. A Princeton ho insegnato anche in un corso di traduzione, e questo è interessante. Dissi: scegliete una sola poesia e lavorate su quella per un intero semestre. E fecero un lavoro incredibile e alcuni sono diventati traduttori professionisti. Mi pare un buon risultato».La vera paura di uno scrittore è di essere dimenticato dai posteri. Lei dice che ha voluto rendere omaggio a Crane che non è entrato nel canone americano. Perché alcuni rimangono e altri scompaiono?«Perché la gente è stupida. Prendiamo Moby Dick, la bibbia della letteratura americana. Melville fu completamente ignorato da vivo. Quando morì uscì un necrologio e la gente pensava che fosse già morto da tempo. Moby Dick fu un fiasco e dimenticato fino al 1920, trent’anni dopo la sua morte, quando un professore di Harvard trovò una copia su una bancarella, lo lesse e capì che era il più grande capolavoro. Lo stesso Poe. E pensate Emily Dickinson che non ha mai pubblicato niente in vita. Perché non mettere anche Crane tra questi grandi autori da non dimenticare. Tutti questi hanno in comune che furono poveri, sempre alle prese con lo sbarcare il lunario, sempre in lotta per essere riconosciuti. La verità è che in questo paese la gente non ama i libri».Ma esagera. Gli scrittori di lingua inglese, già solo per il fatto della lingua, sono letti in tutto il mondo.«Questo libro su Crane in Usa è stato abbastanza ignorato. Qualche recensione, qualche pezzo, ma per il resto silenzio. Neppure un’intervista. Mentre in America Latina è stato un successo. In Messico, per esempio. O anche in Polonia. Ci sono paesi di lettori forti. In Spagna ho fatto una conferenza stampa e c’erano 40 giornalisti culturali. Ragazzo in fiamme ha venduto 100 mila copie. Negli States non credo neppure esistano 40 giornalisti letterari competenti. Sono ignoranti e fanno recensioni senza neppure leggere i libri. Altrove vedo molto più entusiasmo. In Italia sono amico e apprezzo molto Lina Bolzoni».Quindi non è vero che non legge le recensioni? Crane dopo il “Il segno rosso del coraggio” scappò in campagna perché aveva paura del clamore intorno a lui. Per lei cosa ha significato il successo?«Io non ho avuto il problema di Crane di far fronte alla notorietà improvvisa in giovane età. Per me è arrivato tardi, quando ormai ero capace di dare il giusto peso alle cose. È vero che non leggo le recensioni ai miei romanzi. Ho deciso di ignorare le critiche, e quindi devo ignorare anche gli elogi e i premi. Con il libro su Crane è stato diverso, perché non è un romanzo in senso stretto e perché ero curioso di capire le reazioni. Farò lo stesso con il saggio sulle armi in uscita. Mi interessa molto come sarà recepito in un paese appestato dalla cultura delle armi. Ma è un saggio, non un manufatto d’arte».