La Stampa, 5 novembre 2022
Il Papa e l’Iran
Negli ultimi quarantanove giorni, dal 16 settembre, il Papa ha parlato dell’invasione dell’Ucraina, dei drammatici pericoli della guerra nucleare, degli speculatori che soffiano sulla guerra, della pace che non è mai violenta e mai armata, dei poveri e dei migranti e del dovere di soccorrerli, del suo dolore per l’attentato a Mogadiscio, delle sue preghiere per i morti nella calca di Seul, del virus dell’egoismo che minaccia la pace, delle suore e dei preti col vizio della pornografia, dell’orrore per le inaccettabili violenze in Congo, dell’uccisione di Shireen Abu Akleh in un campo profughi palestinese, delle vittime dell’inondazione in Nigeria, del fine vita e delle precedenze alle cure palliative, di transessuali, del cibo che non è una merce, della vergogna di chi butta cibo, dell’abolizione della pena di morte nel mondo, della costernazione per la strage di bambini in un asilo tailandese, della solidarietà ai parenti dei disabili morti in A4, del suo pensiero ai morti per un uragano in Florida e a Cuba, dell’inconcepibile morte di tifosi negli scontri per una partita di calcio in Indonesia, dei religiosi rapiti in Camerun, del rischio per gli africani di affidarsi al supermarket della salvezza, dell’accoglienza, dei bambini ammazzati nel bombardamento di una scuola in Birmania, del razzismo in Brasile, dei combattimenti fra Azerbaigian e Armenia, ma dal 16 settembre, giorno in cui Masha Amini è stata ammazzata dalla polizia morale per aver indossato male il velo, e nei successivi quarantanove giorni in cui sono stata ammazzati oltre duecentocinquanta manifestanti, sull’Iran il Papa non ha detto una parola.