la Repubblica, 4 novembre 2022
L’italianità. Da Scelba a Berlusconi
A dispetto della retorica sovranista, e quindi oltre “l’orgoglio”, “la Patria prima delle madri”, “la Nazione”, “a testa alta”, “pensare in grande” e consimili, ecco che “l’italianità”, anch’essa menzionata come “valore strategico” nel discorso di presentazione della premier alle Camere, è da sempre e al massimo livello un concetto ambiguo e fuggevole, per non dire ambivalente, per cui addirittura Machiavelli poteva confidare: “Noi altri d’Italia, poveri, ambitiosi et vili”.
Ebbene, fra le pieghe di questa benedetta italianità ha fatto in tempo ad annidarsi una più prosaica, ma ragionevole espressione che torna specialmente utile quando i nostri governanti si presentano all’estero, e ben si adatta dunque all’esordio di Meloni: non facciamoci riconoscere.
Sia consentito notare che tale appello di solito ha poco a che fare con questioni di collocazione ideologica, e molto invece con lo stile, il contegno, la conoscenza del mondo, la mancanza di provincialismo e l’uso delle lingue. Né si tratta di andare o meno “con il cappello in mano”. Da questo punto di vista l’esempio più alto resta quello di Alcide De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me»; mentre il peggior modello può farsi risalire a Vittorio Emanuele Orlando che nel 1919, sempre a Parigi, nel negoziare con gli alleati aveva versato tante di quelle lacrime che Clemenceau, sofferente di prostata: «Che felicità se potessi pisciare come quell’italiano piange!».
Meloni e i suoi consiglieri possono dunque darsi una ripassata alla storia. Quella delle figuracce all’estero di leader della Prima Repubblica occupa la più ampia aneddotica. Scelba, per dire, non conosceva né il francese né i suoi colleghi d’Oltralpe per cui tramanda la leggenda che quando gli venne presentato il presidente Pierre Mendès France rispose: «Piacere, Scelba Italia»; così come nel testo del brindisi a Mosca, il discorso di Gronchi scambiava la parola “myr”, che in russo vuol dire pace, con “syr”, formaggio.
Negli Usa, d’altra parte, Leone cantò “Anema e core”, con la mano sul petto, nello stesso viaggio in cui Moro ebbe avvertimenti niente affatto simpatici. E se Rumor,a Bruxelles, destò la più vivaincomprensione nel far presente: «Siamo quasi in zona Cesarini», a Nuova Delhi l’astigiano Goria ottenne il massimo sconcerto spiegando ai suoi interlocutori indiani che gli imprenditori «sono dappertutto dei cani da tartufi». Ancora. Partito De Mita con i suoi ragionamendi, pare che la Thatcher, ascoltandoli in cuffia, sospettasse di avere l’auricolare difettoso. Quanto a Craxi, decisamente esagerò con il numero degli ospiti, donde la celebre battuta, «Vado in Cina con Bettino e i suoi cari» da parte di Andreotti, uno dei pochissimi leader italiani di cui all’estero non ci si doveva mai vergognare – anche se permane il sospetto che ilDivo fosse in prestito dalla Santa Sede.
Però poi arrivò Lui, e altro che farsi riconoscere! Solo il premier belga Di Rupo, l’unico a tenere a cuore la discriminante antifascista, rifiutò di stringere la mano al vicepresidente Tatarella. Fra corna, cucù, ostentazione di bandane con Blair, evocazione di kapò con il tedesco Scholz, eloquenti gesticolazioni rivolte alla signora Obama, schiamazzi davanti alla regina Elisabetta, mimo di mitra a sostegno di Putin, bacio della mano a Gheddafi, senza contare la nipotina attribuita a Mubarak, l’epopea internazionale di Berlusconi, pure minimalisticamente ribattezzata “diplomazia della pacca sulla spalla”, celebra tuttora il Cavaliere quale supremo gag-man planetario, nonché campione assoluto di arci super mega e turbo italianità.
Rispetto a certi brodini che sono seguiti è dubbio se compiacersene o no. Ma proprio al cospetto di questa sospetta grandezza, in fondo, l’enfasi patriottarda di Meloni già rischia di scivolare nel precipizio comico di cui in Italia non si arriva neanche a immaginare la profondità.