Corriere della Sera, 4 novembre 2022
«Boris 4», una visione squisita leggermente fuori sincrono
Ho seguito Boris 4 tutto d’un fiato (Disney+), mi sono divertito, mi sono commosso nel finale, ho preso pagine di appunti, ho ancora una volta ammirato la grande capacità di raccontare la cialtroneria che caratterizza molte produzioni italiane e l’intelligenza di narrativizzare il pressapochismo, il narcisismo, la megalomania della «fabbrica dei sogni», mi sono identificato via via in alcuni dei protagonisti come non mi succedeva da tempo.
Ho trovato irresistibile la battuta «Lo dimo», il ribaltamento romanesco del principio base della narrativa («Show, don’t tell», mostra non raccontare): quando non ci sono i mezzi o la scena costa troppo, basta che uno dei personaggi la racconti: «Lo dimo, nun lo famo». Mi ha molto incuriosito l’idea del passaggio dall’irrisione della tv generalista (con le sue fiction dozzinali) a quella delle grandi piattaforme (una vita di Gesù che ricorda «Life of Brian» dei Monty Python).
Mi è sembrata toccante l’idea di smaterializzare il terzo sceneggiatore, come se la presenza di Mattia Torre fosse ancora decisiva. Ma ho faticato non poco a scrivere queste poche righe perché sono stato assalito da dubbi, dalla paura che l’operazione sia leggermente fuori sincrono: con i tempi, con i temi trattati, con la volontà allegorica, con la forza rappresentativa. In «Boris 4» c’è più trama che tema. Irretito dallo strapotere dell’algoritmo (l’entità superiore che ha sostituito la potestà irresponsabile del vecchio «funzionario Rai»), procedo di puntata in puntata alla ricerca dell’ironia illudendomi sempre che l’apparizione sia imminente, che un colpo di scena chiarisca il senso di questa danza funebre.
Colpi di scena e battute si susseguono, i dialoghi sono funzionali ed esaurienti, ma l’ironia resta enigmatica. «Boris 4» è un’esperienza squisita, impone una accelerazione emotiva che finisce per rendere inevitabile la frustrazione finale.