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 2022  novembre 03 Giovedì calendario

Intervista a Roberto Vecchioni

Incontrare l’autore di Luci a San Siro per fare il punto della canzone d’autore tra passato, presente e futuro è impresa titanica: il fluire delle parole misurate e scelte con cura, il piglio sottile ma mai celato da professore, il suo personale patrimonio culturale e infine la sua passione smisurata per l’enigmistica sono accelerazioni da podista alle quali è difficile allinearsi. L’occasione è il premio Pierangelo Bertoli, consegnato al Teatro Storchi di Modena lo scorso weekend dalle mani del figlio Alberto Bertoli e da Riccardo Benini. “È stato il più coerente di tutti” afferma il Professore, “lo definirei una luminosa coerenza e quindi il premio a lui intestato è un pregio, mi ricorda gli anni Settanta”.


Artisticamente, come si potrebbe definire Pierangelo Bertoli?


Le sue verità sono assolutamente sociali e politiche: è stato sempre vicino ai più deboli, andava spesso nelle carceri e promuoveva la partecipazione sociale. Per lui vita e arte erano la stessa cosa: è stato un esempio di lotta civile attraverso la musica.


La sua si è intrecciata molte volte con Bertoli, eravate anche amici?


Negli anni Settanta abbiamo fatto un sacco di serate in Emilia nelle grandi discoteche: alle undici per un ora e mezza si cantava con i ragazzi che si sedevano a terra e ascoltavano. Come persona non era facile: non voleva che si entrasse nel suo intimo, era ironico e sempre pronto alla battuta con una vena di rabbia contro i potenti e le persone ignobili. Non aveva una grandissima simpatia per me, mi apprezzava come cantautore. In fondo io ero figlio di borghesi e lui un contadino di Sassuolo, io ero un giovane comunista mentre lui era molto oltre.


Avete condiviso un’idea sfrontata di canzone popolare.


Pierangelo era l’antitesi della canzone commerciale. Anche quando è andato a San Remo coi Tazenda è stato come andare in Chiesa a spennacchiare i preti.


Ivano Fossati ha parlato dei rapper con parole positive, qual è il suo parere?


Comunicano argomenti fondamentali che sono la rabbia contro il mondo che non cambia e il senso di un amore che dovrebbe essere equilibrio. E lo dicono con un’altra semantica perché è più appropriata questa brevità nel rap. È un triplo salto carpiato con caduta perfetta rispetto alla canzone di Guccini, De Gregori e alla mia: noi straparlavamo, loro riassumono.


Tra i rapper chi apprezza di più?


Willie Peyote, Caparezza che è il più accreditato e longevo e Fedez, che è un ragazzo di grandissima intelligenza: capisce sempre dove deve andare nonostante sia spesso denigrato.


Lei e De André oggi sareste artisti hip hop?


Penso di sì.


Il primo investimento discografico su di lei l’ha fatto Davide Matalon, lo scopritore di Mina.


Era un fabbricatore di dischi e aveva una sua etichetta: scoprì effettivamente Mina e la fece esordire con Il cielo in una stanza e in seguito conobbe me e mi fece incidere un disco che vendette pochissime copie.


La sua vera passione è la stessa di Paolo Conte, l’enigmistica.


Ce l’aveva anche Gaber, inventava indovinelli in macchina quando tornava dai concerti. È un sollievo per la mente cercare astuzie nella parola: vale per scrivere canzoni ma pure per divertirsi. L’enigmista non è un grande matematico e nemmeno un gran poeta – a parte Gaber e Conte –, ma si diverte a mescolare matematica e logica. Nessuno ha idea di quanti enigmisti ci siano.


Un esercito?


Migliaia di persone, e uno più folle dell’altro. C’è anche una riunione annuale e ci vado quasi sempre: uno di questi enigmisti ha scorporato Luci a San Siro e ha riscritto tutta la mia storia lettera per lettera.


Con l’enigmistica riesce anche ad ammaliare i ragazzi quando insegna?


No, è merito della passione: ne ho così tanta verso la cultura che riesco a comunicarla. Quando sentono la passione i ragazzi ci cascano, lo dico in senso buono. Sono dei curiosi spaventosi, scoprono la bellezza e non serve spiegarla, ma farla arrivare poco per volta.