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 2022  novembre 03 Giovedì calendario

Intervista a Mimmo Jodice

L’isola e il maestro. Mimmo Jodice è uno dei grandi autori della fotografia contemporanea, non solo italiana; 88 anni, sguardo chiaro, storia lunga. Una sua personale a Procida, ultima delle grandi mostre previste nell’ambito del programma per la Capitale Italiana della Cultura 2022. Abitare metafisico, fino al 31 dicembre, a Palazzo della Cultura di Terra Murata: 7 opere fotografiche realizzate tra metà anni ’70 e il 2000, alcune inedite, che esplorano l’identità procidana (mare, coste, case) incrociando temi cari a Jodice, come il viaggio, la materia delle isole, il mito del Mediterraneo. Lo abbiamo incontrato nel suo studio, sulla collina di Posillipo a Napoli, con la moglie Angela, compagna di vita da 60 anni; occasione per parlare delle visioni che lo hanno ispirato, per entrare nella stanza della sua camera oscura dove ha plasmato i frammenti di realtà – prima pensati, poi catturati guardando come si muove la luce – in un bianco e nero vicino a volte alla soglia del sublime.
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Cosa rappresenta Procida per lei?
"Procida è una fonte di ispirazione perché è un altro mondo rispetto alle isole turisticamente risapute come Ischia o Capri. Ha un’autonomia, una dimensione umana. A Procida c’è il piacere di restare; quasi addirittura vivere, se fosse possibile. Una volta approdati, c’è questo continuo rivedere il mare, anche se non ci si affaccia. Poi viene fuori la forma architettonica, non contaminata dalle mani dell’architetto. Le case sono cresciute appoggiandosi l’una all’altra. La costruzione a cemento, il pilastro, l’architrave, è come i presepi di una volta, dalla mano dell’uomo che di volta in volta modellava una scala, un ingresso. Come fare la pizza”.
Mimmo Jodice, Notturno, 1997
Mimmo Jodice, Notturno, 1997
Le immagini in mostra sono tutte in bianco e nero, che predilige.
"La fotografia è fatta di luce, la luce con il colore c’entra poco. Togliendo dalla realtà il colore, resta questa dimensione che non viene catturata dal piacere del colore. Resta la forma, che per me è più importante del colore. E poi la luce con il bianco e nero ti dà la vibrazione. Io vedo in bianco e nero. Per la fotografia la prima cosa è vedere. Io non mi incanto a vedere i monumenti, ma le piccole cose. La curiosità mi spinge, perdo la testa, la memoria di quello che stavo facendo, per vedere, vedere”.
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La fotografia è stata un innamoramento.
"Sono nato in uno dei rioni più difficili di Napoli, la Sanità, e non l’ho mai dimenticato. Nel ’39 muore mio padre, avevo cinque anni, lascia mia madre vedova con quattro figli; nel ’40 scoppia la guerra, i bombardamenti. Ho cominciato a lavorare che non avevo neanche dieci anni, ero uno scugnizzo, non avevamo da mangiare. Facevo il garzone nei negozi. Un poco alla volta ne siamo venuti fuori, ma mi porto dietro questa eredità di sofferenza. Poi, per puro caso, mi è capitata una fotografia in mano. Negli anni ’50 c’erano o i professionisti che facevano i matrimoni, o i fotoclub, i fotoamatori, che facevano a gara per il bel ritratto, il bel paesaggio. A me non andavano bene né l’uno né l’altro. Però grazie a questo primo contatto con la fotografia cominciai a vedere. Il più delle volte vedevo senza fotografare, non è che uscivo con la macchina fotografica, ero un povero disgraziato che lavorava. Ho imparato a inquadrare senza macchina fotografica, con gli occhi”.
Mimmo Jodice, Procida, 1997
Mimmo Jodice, Procida, 1997
Poi ha avuto in regalo un ingranditore.
"Ho cominciato a fare dei lavori solo con l’ingranditore perché non potevamo comprare la macchina fotografica. In camera oscura, sperimentando tempi e luce. Avevo una predisposizione per l’arte, prima di fare fotografia ho fatto molto disegno e pittura”.

Si considera un autodidatta?
"Lo sono. Poi sono finito come docente di fotografia all’Accademia di Belle Arti di Napoli, il primo in Italia, negli anni ’70. Il direttore dell’Accademia amava il mio lavoro e diceva: oggi i giovani vogliono fare la fotografia, sono interessati. Ma poiché non c’era la possibilità di darmi un incarico, il primo contratto fu come aiuto elettricista per tre mesi; un altro, come aiuto scenografo; il terzo, come addetto alle luci. Intanto si era sparsa la voce, alle mie lezioni venivano anche ragazzi di architettura, ingegneria, archeologia. Il direttore mise un grosso registro all’entrata, raccogliendo in poco tempo 3-4000 firme, le portò al ministro della cultura che istituì la prima cattedra di fotografia. In quegli anni la fotografia era considerata di serie B, non le si riconosceva la dignità di altre forme espressive”.

Fotografia per rappresentare, non solo documentare.
"Se mi attribuisco un merito, insieme ad altri, è quello di aver dato credibilità alla fotografia come linguaggio dell’arte. Siamo andati avanti producendo lavori e alla fine critici e curatori si sono interessati. Alcune mie foto sono finite in grandi musei del mondo, come il MoMA e il Louvre. Per me il punto di svolta è stata la prima mostra organizzata a Parigi dall’Istituto italiano di cultura. Mentre qui ero considerato un bravo fotografo, a Parigi ero diventato un maître. Per 15 anni ho lavorato per tutta la Francia. Ma non ho mai voluto lasciare Napoli, per me era importante sentirmi ispirato, trovarmi a mio agio, in una dimensione più congeniale al mio modo di guardare e stare. È molto importante viaggiare, andare, ma poi tornare a casa”.

C’è stata anche la stagione della fotografia come strumento di indagine e denuncia, sempre con grande attenzione estetica.
"Ho lavorato per più di dieci anni per la rivista Il cuore batte a sinistra, indagando su temi come ospedali, carceri, lavoro minorile, disoccupazione. Sapevo dove trovare quella sofferenza umana, quelle miserie, non dovevo fare un lavoro, stavo lì, i soggetti non sapevano nemmeno cosa fosse una macchina fotografica. Stampavamo la notte e poi attaccavamo le fotografie su pali e le andavamo a mettere lungo le strade nei quartieri dei ricchi perché volevamo che l’altra parte di Napoli conoscesse questa Napoli”.

Con la delusione politica, le figure umane scompaiono dalle sue immagini.
"Dagli anni ’80 in poi ho tolto l’uomo dalle mie fotografie. Agli inizi mi interessava molto, dopo mi sono interessato alla materia, all’architettura, al paesaggio. Ho svuotato tutto. I temi fondamentali sono diventati il silenzio, l’attesa, la dimensione di sguardo nel vuoto. Io guardo l’infinito, la mente pulita. Non c’è un traguardo”.

La linea dell’orizzonte è importante nelle sue foto.
"Perché l’orizzonte non finisce mai. Permette di spaziare senza problemi, puoi lasciar andare l’immaginazione perché in questo vuoto posso metterci tutto quello che mi piace. E la luce è fondamentale. Se dovesse precipitare tutto, la luce resta, perché è l’essenza fondamentale di tutto ciò che ci appartiene. Mi permette di vedere, sentire, con lo sguardo. Io ho bisogno di spingere lo sguardo, emozionarmi, scoprire, vedere. La fotografia per me è vedere”.

C’è ancora qualche fotografia che vorrebbe realizzare?
"Oggi non c’è più la dimensione della fotografia come l’ho fatta io: mettere la pellicola in macchina, scattare, sviluppare il negativo, fare gli ingrandimenti. Passavo una vita intera nella camera oscura. La sera sviluppavo e poi stampavo tutto a mano anche di notte. Ora non più, da diversi anni. Oggi ci si mette al computer, è cambiato tutto. Ho circa 90 anni, non posso più fare quello che facevo prima, dieci anni fa. Sì, ogni tanto vedo. Da dove inquadrerei, da qui a qui. Una cosa l’ho assimilata, questo vedere. Non fotografo, ma è come se fotografassi”.