Corriere della Sera, 3 novembre 2022
La lezione di Argan
Da qualche anno la storia dell’arte, in Italia, sembra aver rinunciato ai grandi racconti. Trionfa, spesso, un filologismo lenticolare, «filatelico» (avrebbe detto de Chirico), d’impronta neopositivistica, impegnato in esercizi impersonali su aspetti minimi di quadri e sculture.
Dinanzi a questi paesaggi piuttosto desolanti si avverte con forza la nostalgia per una figura totale come quella di Giulio Carlo Argan, a trent’anni dalla morte (12 novembre 1992). Un grande storico e critico d’arte. Forse, soprattutto un teorico, un filosofo delle arti, uno storico delle idee, un intellettuale, il cui nome, in un immaginario Pantheon, andrebbe posto accanto a quelli di Wind, di Gombrich, di Panofsky, di Schapiro, di Chastel.
È stato «un ingorgo di algide passioni e di dionisiaco rigore, di cinismo e di affettuosità, di delirio ragionato e di modestia», sempre capace di volare alto, ha osservato Lea Vergine. Una personalità complessa che, incurante di ogni rigido monografismo, si è mossa tra epoche e linguaggi diversi, articolando una vasta e ininterrotta narrazione, come dimostra il fortunato manuale Storia dell’arte (1968), seguito da L’arte moderna (1970, opera ripubblicata a fascicoli nel 1990 dal «Corriere della Sera») e idealmente integrato dai testi radunati in Immagine e persuasione (1986) e in Da Hogarth a Picasso (1983). Dall’antichità al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco, dal Romanticismo al Neoclassicismo, allo scandalo delle avanguardie. Dalla pittura alla scultura quindi, e dall’architettura all’urbanistica, al design.
Si tratta di scorribande tra secoli e pratiche governate dalla necessità di disegnare, per snodi essenziali, tra pause e interruzioni, una mobile cartografia del Moderno («il bandolo giusto»), il cui centro è occupato dall’eresia architettonica di Michelangelo, cui Argan dedicò il suo libro testamento (1990): una testimonianza estrema implicitamente autobiografica, che parla dell’autore della cupola di San Pietro, ma soprattutto interroga il senso stesso del fare arte. Intorno al «primo dei moderni» viene articolata un’ampia drammaturgia, che collega episodi non contigui. Fino all’epilogo: l’arte del Novecento. Che, secondo Argan, nasce dalla pittura del Settecento, attraversata da «spirito di critica», con una «matrice razionalista». In tal modo si mette in evidenza come l’inquieta e tesa cultura contemporanea abbia radici illuministe piuttosto che legami con l’impressionismo e con i sommovimenti della Vienna della Krisis.
Passaggi decisivi, in questo viaggio, sono i momenti e gli artisti che Argan ha studiato in ricerche di rara finezza interpretativa: Borromini e Brunelleschi, Beato Angelico e Botticelli, il Barocco e la pittura inglese del Settecento, Picasso e Boccioni, Gropius e Moore.
In questa originale mappa del Moderno, sorretto dalla convinzione secondo cui il compito della storia dell’arte consista nel capire e non nel giudicare, Argan individua alcune inclinazioni formali ricorrenti, come sequenze di un unico gesto. Innanzitutto, destino e progetto (per riprendere il titolo di una raccolta edita nel 1965). Da una parte, la predilezione per il non compiuto: accettando di confrontarsi con la casualità degli eventi, alcuni pittori come gli informali sperimentano un ordine aperto, aleatorio, inintenzionale. Dall’altra parte, la tendenza a programmare, a controllare la coerenza di ogni atto, a calcolare tutte le mosse: artisti come i neoplasticisti e i cinetici si comportano da viaggiatori che tracciano l’itinerario migliore per arrivare alla meta.
Per leggere la parabola della modernità, Argan si affida anche ad altre due metafore: la salvezza e la caduta (è il titolo di un’antologia pubblicata nel 1964). Da un lato, l’idea dell’arte come strumento in grado di incidere sulla società. Dall’altro lato, il declino inarrestabile dello spazio civile dell’arte stessa, vittima, dagli anni Sessanta, di un’irreversibile crisi, sovente incapace di comunicare, priva di una funzione concreta, in contraddizione con le attività culturali e produttive di una determinata epoca, condannata alla morte, secondo quello che è l’inevitabile compimento di ogni evento umano: in questa cornice, con toni apocalittici, Argan colloca i processi meccanici della Pop Art e i citazionismi postmodernisti.
Sfogliamo così i capitoli di un’epica critica segnata da lucidità cartesiana, che si nutre di artisti e di opere, ma anche di idee, di trame filosofiche e di tensione morale. Tante voci entrano nel sistema elaborato da Argan. La ripresa del metodo del suo maestro, Lionello Venturi, si intreccia con richiami idealistici (Croce) e fenomenologici (Husserl e Merleau-Ponty riletto da Enzo Paci) e con rinvii al marxismo e all’empirismo statunitense. Sono, questi, riferimenti necessari per cingere d’assedio quel misterioso oggetto del desiderio che è l’opera d’arte, intesa come problema e come luogo sempre in dialogo con il flusso rapido e crudele della storia. Perché pittura, pensiero, cultura e società non si situano in regioni separate e distanti: si incrociano e si attraversano grazie a nessi, relazioni, corrispondenze segrete.
Ma la vera sfida di Argan, come si legge nella sua Intervista sulla fabbrica dell’arte rilasciata a Tommaso Trini (1980), è altrove: portarsi al di là di un chiuso specialismo e trasformare la storia dell’arte in un discorso pubblico. Quasi una trasgressione del suo temperamento timoroso, cauto, sabaudo (era nato a Torino nel 1908). In tale prospettiva bisogna iscrivere la scelta di declinare questa disciplina su diversi registri. L’insegnamento universitario (dal 1959 a La Sapienza di Roma), i libri, i saggi, gli articoli (Scritti militanti e rari, 2009; Questioni di critica, 1981), la collaborazione con la Treccani (le voci enciclopediche arganiane sono in Arte e critica d’arte, 1984), le polemiche sul patrimonio artistico e architettonico, ma anche le mostre e i manuali per i licei e le università. Senza dimenticare i ruoli di rilievo occupati nel sistema dei beni culturali: Argan è promotore, insieme con Cesare Brandi, dell’Istituto centrale del restauro (1938), direttore generale delle Antichità e Belle arti (sotto il ministro fascista Giuseppe Bottai), direttore dell’Ufficio per l’arte contemporanea del ministero (1949); e collabora con organismi internazionali (Icom e Unesco) e con istituzioni importanti (tra le altre, Biennale di Venezia e Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma).
Approdo di questo coraggioso tentativo di concepire la storia dell’arte come un sapere militante è rappresentato dalla scelta della responsabilità e dell’impegno politico, ispirata dalla lezione di Benedetto Croce: l’adesione al Psi di Pietro Nenni e, poi, alla sinistra indipendente di Ferruccio Parri; infine, l’elezione a sindaco di Roma (1976-78) e a senatore del Pci (1983-92). Esperienze che dicono il bisogno di rendere la concezione arganiana della «storia dell’arte come storia della città» una pratica di vita.
Sono, queste, le tappe di un itinerario ricco e plurale ma di straordinaria coerenza, dietro cui si nasconde una vocazione profondamente razionalista. La difesa dei valori e della ragione contro la barbarie dell’irrazionalismo. E, insieme, il sogno di provare ancora a cambiare il mondo attraverso l’arte e il progetto. In prima persona, contro ogni indifferenza.
È qui l’utopia di questo illuminista del XX secolo. «Spero di arrivare alla fine dei miei giorni sempre fermamente persuaso che nulla al mondo è, in sé, razionale, ma nulla c’è di tanto irrazionale che il pensiero umano non possa razionalizzare», amava ripetere Argan.