Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 03 Giovedì calendario

In morte di Franco Tatò

Massimo Sideri per il Corriere
Su Franco Tatò, scomparso ieri per un ictus a 90 anni mentre attendeva una delicata operazione al cuore in quella Puglia che aveva preso il posto della natia Lodi, non si può dimenticare un aneddoto legato agli anni passati alla guida di Fininvest. «Quando lo incontro in corridoio – disse di lui Silvio Berlusconi nel ‘93 – ho paura che mi guardi come un costo da abbattere». Una battuta, ma nemmeno troppo. Era detto «Kaiser Franz» non solo per gli anni passati a studiare in Germania, dove con la caduta del Muro di Berlino lo chiamarono a risanare alcune aziende dell’Est, ma anche per la rudezza con cui tagliava costi e personale. Arrivato nella società del Cavaliere su indicazione di Enrico Cuccia e di Mediobanca per sistemare i conti della società negli anni precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, Tatò obiettò subito sull’acquisizione da oltre 10 miliardi di lire di un giocatore per il Milan, il francese Marcel Desailly. Lamentandosene con Berlusconi si sentì quasi appoggiato e si sentì dire: è Galliani che lo vuole! Finito da Galliani scoprì invece che era una prima scelta del Cavaliere.
Fu anche uno dei primi maestri di Marina Berlusconi che, giovanissima, lo seguiva con il blocchetto degli appunti in quell’azienda che qualche anno dopo avrebbe guidato. Nel ‘96 con il governo di Romano Prodi venne chiamato all’Enel con la missione di privatizzarla. «Fu il vero padre dell’Enel moderna» ricorda Chicco Testa che da presidente lo affiancò in quella missione non certo facile: far digerire alla Borsa e ai mercati l’azienda di Stato che aveva quasi 100 mila dipendenti. Ne tagliò circa 18 mila: come ricorda Pier Luigi Celli, chiamato a fare il capo del personale in Enel proprio da Tatò, per convincere la vecchia prima linea ad andarsene prepararono un ordine di servizio il lunedì mattina con l’abolizione di tutti i titoli ai direttori centrali. «Entro mezzogiorno – ricorda Celli – eravamo pieni di lettere con cui i vecchi dirigenti di oltre 65 anni accettavano di andare in pensione in cambio del mantenimento dei titoli. Riuscimmo così ad alimentare il ricambio con persone più giovani». Soprattutto con persone scelte sul mercato. L’Enel era una società dove si entrava per non uscire più, dove si saliva gradino per gradino. Non c’erano vasi comunicanti con il settore privato.
«Io fui il primo dirigente a venire assunto dall’esterno dalla nascita stessa dell’Enel» ricorda sempre Celli che con Tatò aveva anche un legame personale legato alle figlie: «Lui aveva perso i contatti con sua figlia, io con la mia. Scoprimmo poi che erano entrambe legate alla Madonna di Medjugorje. Poi mia figlia divenne una monaca di clausura, sua figlia andò a vivere in un Kibbutz». «Era molto ruvido ma dava grande libertà» riconosce Celli.
Tra le altre cose nacque sempre in quel periodo la società di telecomunicazioni Wind. «Costruimmo il mercato dell’energia che non esisteva» conclude Chicco Testa.
La scrivania Olivetti
Sulla sua scrivania non c’era una carta fuori posto. Guai a toccargli anche una penna
Grande amante di Capalbio («il venerdì facevamo sempre una riunione ma poi ci ritrovavamo a Capalbio per il fine settimana» ricorda Celli) e soprattutto della Puglia dove aveva acquistato delle tradizionali masserie che erano diventate il suo buen retiro con gli amici. La stessa regione difesa con un libro-atto di amore: «Perché la Puglia non è la California». La tesi: Internet avrebbe favorito la californizzazione della Puglia. Una previsione che in parte si è realizzata con la nascita di tante start up.
Le potenzialità delle tecnologie lo attrassero sempre. Ricorda Francesco Caio: «Quando andai a guidare la Merloni fu il primo a capire subito quello che stavamo facendo mettendo l’intelligenza dentro gli elettrodomestici, con la possibilità anche di gestire i picchi di energia». Un tema ancora oggi in agenda.
Dei tanti anni passati in Olivetti si portò sempre dietro le scrivanie, letteralmente. Una volta in Enel fece mettere i mobili di ufficio Olivetti. E della sua scrivania aveva quello che è stato definito un «culto»: sempre in ordine, mai una carta sopra («le carte sono da buttare oppure rappresentano un lavoro che non hai ancora portato a termine», diceva). Sembra che l’attenzione per la scrivania fosse un’eredità degli anni passati con Carlo De Benedetti alla guida della Arnoldo Mondadori. Guai a toccargli anche una penna, lui la rimetteva a posto.
Kaiser Franz
Era chiamato così sia per gli anni trascorsi in Germania, sia per i tagli di costi e personale
D’altra parte fu proprio la Olivetti la sua vera palestra. Vi era entrato nel 1956 a 24 anni, lavorando per i primi sei mesi alla linea di montaggio dello stabilimento di Ivrea. Racconterà: «Personalmente ritengo quel periodo uno tra i più utili per me dal punto di vista formativo, perché operare in catena di montaggio mi ha aiutato a comprendere le priorità e i valori di coloro che vi lavoravano». Ha fatto parte di innumerevoli consigli di amministrazione e ha guidato come presidente anche la Parmalat ormai passata alla famiglia Besnier dopo il risanamento di Enrico Bondi. Ma sono gli anni alla guida di Enel a rappresentarlo fino in fondo nella sua evoluzione di manager risanatore senza troppa pietà. Come quella volta in cui andò a Potenza come ricordato sempre da Celli: «Avevamo un piccolo aereo per girare e raccontare ai dipendenti il progetto che dovevamo affrontare. Potenza doveva essere chiusa e fusa con il centro di Bari. Chiaramente i dipendenti non erano per niente contenti di questo, ma io riuscii a trattare in un bar con i sindacati. Trovato l’accordo ci apprestavamo a bere quando vidi Tatò entrare inseguito da delle persone inferocite. Rimanemmo sotto assedio nel bar. Aveva detto ai politici che lui non avrebbe più assunto raccomandati e che ognuno doveva fare il proprio lavoro. Ci salvò la polizia che ci scortò direttamente all’aeroporto di Bari. Ecco chi era Tatò».