Corriere della Sera, 3 novembre 2022
Il mea culpa di Verena Bahlsen
«Qualche notizia triste. Lascio il Gruppo Bahlsen. Lo faccio per motivi personali, e sono certa che adesso Alexander Kuehnen sarà un grande capitano per la nostra nave. Ai miei attuali colleghi, e a quelli del passato, voglio dire una cosa (...)». Comincia così il messaggio pubblicato tre giorni fa su LinkedIn da Verena Bahlsen, 29 anni, quarta generazione della dinastia tedesca dei biscotti al burro che nel 1893 pose le basi del suo successo su una galletta chiamata come il filosofo Leibniz: avrebbe sfamato reggimenti interi. Verena Bahlsen lascia l’azienda da 2.750 dipendenti e 540 milioni di fatturato perché la pressione era troppa.
«Sono stata talvolta poco gentile, impaziente, ho interrotto le persone quando avrei dovuto ascoltarle e sono stata fredda e dura quando sarei dovuta essere più morbida», ha scritto nel suo lungo addio ai 5.450 follower che la seguono sul social network. Ed è impossibile, ora, non pensare a qualcuna delle sue uscite più infelici, come quando nel 2019 disse alla Bild che la sua azienda aveva «trattato bene» le operaie polacche deportate dalla Polonia e dall’Ucraina su carri bestiame nel pieno della follia nazista. «È accaduto prima di me, e comunque pagavamo i lavoratori forzati esattamente quanto i tedeschi e li trattavamo bene. Bahlsen non era colpevole di nulla», aveva ammesso anche un po’ piccata, costringendo l’azienda a repentine scuse.
Ma non era stata l’unica dichiarazione poco meditata di quell’anno: a una conferenza di marketing aveva detto quanto fosse felice di possedere un quarto dell’impresa di famiglia e di avere come obiettivo per il futuro di guadagnare così tanto per potersi comprare degli yacht.
Oggi i suoi sogni sono ridimensionati. Colpa degli attacchi di panico, delle crisi di pianto, di quel senso di inadeguatezza e di imbarazzo per i momenti di paura e insicurezza. Con una laurea in tasca in Comunicazione alla New York University e un master in Business Management al King’s College di Londra, oggi Verena Bahlsen si prepara a percorrere nuove strade. «Amo i marchi e il modo in cui diventano veicolo di connessione tra esseri umani. Vorrei prendermi del tempo per imparare in che modo le persone si inventano delle storie che poi ispirano gli altri. Vorrei imparare a scrivere, veramente. Fare uno stage in un set cinematografico. Credo di voler fare la freelance nel settore della creazione e del posizionamento di un brand». Chiede infine di avvisarla, se c’è qualcuno che cerca qualcuno come lei. Precisando, però, di aver bisogno ancora di qualche settimana «per fare surf, stare seduta su una spiaggia, essere scandalosamente improduttiva».
L’appello è corredato da un suo primo piano in bianco e nero, con il sorriso appena accennato e la mano destra che le copre il mento. «Questa foto me l’ha scattata il mio psichiatra – ha spiegato —. Mi sembrava che funzionasse».
Decine di messaggi affettuosi hanno commentato il suo saluto, attestati di stima per il coraggio di staccare. Ma non sono mancate voci critiche, di chi per esempio non ama che LinkedIn, piattaforma nata nel 2002 per favorire contatti di tipo professionale, diventi un palcoscenico di autocoscienza. Tanto più che moltissimi altri professionisti, con lo stesso problema, non hanno la stessa possibilità di Verena di fermarsi e ricominciare.
«Ora quando vado al supermercato mi fermo davanti agli scaffali dei biscotti e penso a quanto lavoro c’è dietro. Provo orgoglio e gioia per un risultato così bello», ha raccontato. «Lavorare con voi mi ha cambiata». Forse in meglio. Si vedrà.