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 2022  novembre 02 Mercoledì calendario

UMBERTO BOCCIONI, IL PICASSO ITALIANO – IN UNA BIOGRAFIA, VITA, RISSE E PRODEZZE DI “UN SOVVERSIVO” CHE CON MARINETTI TENNE A BATTESIMO IL FUTURISMO - IL CAVALLO ROSSO DE LA CITTÀ CHE SALE ANTICIPA IL CAVALLINO DEI MOTORI DI ENZO FERRARI. LE DONNE (COME MARGHERITA SARFATTI, VITTORIA COLONNA E LA MADRE), LE SCAZZOTTATE E LA MORTE A 33 ANNI, COME CRISTO, NELLE RETROVIE DELLA GRANDE GUERRA CADENDO DA CAVALLO… -

Della vita di un artista — un pittore, un musicista, un poeta — che cosa si può conoscere se non l’opera? Mettiamoci davanti al capolavoro di Umberto Boccioni — La città che sale, noto anche come Il Lavoro — e ammiriamo, rapiti e travolti, quella tempesta di colori, forme, movimenti, materiali, anime che nel 1910 già contengono in sé la modernità e l’uomo del XX secolo che crea e distrugge sé stesso e la sua storia.

Quell’opera, oggi esposta al MoMa di New York, ha in sé senz’altro qualcosa di sovversivo: riesce a parlare al nostro animo mettendo il movimento sulla tela e quel cavallo rosso che c’è al centro della tela è insieme moderno e antico, come l’antico e il moderno c’è nei cavalli — questa volta uno bianco e uno nero — del celebre mito di Platone in cui si mette in scena la natura inquieta dell’anima umana che è la fonte dell’opera.



Il pittore che cosa mise realmente sulla tela: la modernità o la sua inquietudine? Forse, non c’è davvero differenza. Ma per provare ad avere una risposta bisogna leggere il libro che Rachele Ferrario, storica e critica d’arte, ha dedicato alla vita e all’opera di questo geniale pittore che con i colori e il gusto della bellezza, ereditata dal sangue e dalla gentilezza della madre, ci ha mostrato il Novecento ancor prima che il Novecento venisse al mondo: Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo (Mondadori).



La biografia di Umberto Boccioni scritta da Rachele Ferrario ha una caratteristica: cerca di avvicinare il più possibile vita e arte, assumendo il rischio che una delle due prenda fuoco. Senz’altro sembra che, ad un certo punto, prendano fuoco le pagine del libro perché il racconto della storia del cuore di Boccioni è materiale altamente infiammabile. Basti questa considerazione che ha davvero in sé qualcosa di incredibile: Boccioni morì, come Cristo, all’età di 33 anni nelle retrovie della Grande guerra cadendo da cavallo nell’agosto del 1916, ma sulla sua figura intellettuale e morale e vitalissima graveranno per tanto tempo l’ombra e la maledizione del fascismo. Eppure, il regime di Benito Mussolini inizierà a prender forma soltanto sei anni dopo la morte del giovane pittore che con il poeta Tommaso Filippo Marinetti mise al mondo il Futurismo.

È giusto porsi la domanda «ma se non fosse morto così bello e così giovane sarebbe diventato fascista»? È davvero una domanda strana e stralunata perché per quanto i sentimenti che agitavano il cuore del figlio di Raffaele — usciere di prefettura — e Cecilia Forlani — sarta — potessero essere in sintonia con il mito della giovinezza, della violenza, del nazionalismo che son propri del fascismo, ciò che a noi resta del grande pittore son le opere che in un sol balzo vanno ben al di là sia della vita e della morte dell’artista sia dell’inizio e della fine del regime mussoliniano, per entrare a far parte semplicemente e veracemente della bellezza dell’umanità sofferente.

Non si vede questa bellezza straziante nei quadri di questo «purosangue romagnolo», come lo definì Aldo Palazzeschi, nato per caso a Reggio Calabria, o di questo Picasso italiano morto troppo presto? La biografia di Boccioni scritta da Rachele Ferrario corre come il cavallo rosso de La città che sale che anticipa il cavallino dei motori di Enzo Ferrari. Si va dall’infanzia di Morciano di Romagna e Padova all’incontro decisivo a Roma con Balla, dall’amicizia con Sironi e Severini al legame con Marinetti, dagli amori e dalle donne — come Margherita Sarfatti e Vittoria Colonna, ma la donna insostituibile del pittore fu la madre — ai viaggi in Russia e a Parigi, dalle scazzottate alle polemiche su arte e amore.

Ma dopo aver fatto una corsa a rotta di collo nei veloci trentatré anni di Umberto Boccioni ci si rende conto davvero di aver bruciato un secolo in una giovane vita e, allora, si può dire con la Ferrario che «non è il Futurismo che fa Boccioni; è Boccioni che fa il Futurismo» e lui, pur essendo figlio del suo tempo, ha un «respiro universale» che parla a tutti gli uomini di ogni epoca. Si può arrivare a dire, come di fatto fa la critica d’arte, che Marinetti deve a Boccioni più di quanto Boccioni non debba a Marinetti: gli Stati d’animo e La città che sale ma anche Rissa in galleria sarebbero stati dipinti anche senza Marinetti, ma non senza «la pittura rivoluzionaria di Cézanne» e la velocità che si portava in petto, che altro non era che la nuova forma dell’eterna inquietudine del cuore umano. Lo si può comprendere anche mettendo da parte tanti discorsi e guardando le Forme uniche della continuità dello spazio per vedere insieme, l’umano, l’oltreumano e il disumano. Tutto in uno.